Michele Farnesi, lucchese, spirito libero difficilmente domabile, vive la vita e la cucina intensamente, capace di trarre insegnamenti importanti da ogni esperienza e di trovare, tanto nelle sue scelte quanto nei suoi piatti, il giusto equilibrio tra istinto e razionalità.
Impara a destreggiarsi ai fornelli fin da bambino, grazie alla mamma, pessima cuoca, e all’istinto di sopravvivenza, che gli insegnano a cavarsela da solo. Nonostante una stagione estiva in Sardegna in un ristorante da seicento coperti al giorno rischi di farlo mollare, una cena da Conti Roero, ristorante stellato a Monticello d’Alba, lo fa ricredere. Conquistato dalla raffinatezza della cucina piemontese, chiede allo chef Fulvio Siccardi di accoglierlo in cucina e nel giro di un anno e mezzo passa da stagista a sous-chef.
Dopo il Piemonte approda a Stoccolma, da Stefano Catenacci, prima nel ristorante italiano dell’Hotel Nobis e poi all’Operakällaren, ristorante gastronomico francese old-fashioned, con una cucina classica e un servizio impeccabile che lo affascinano. Stanco del clima svedese, bussa poi alla porta dell’Osteria Francescana, dove per otto mesi, gestisce la produzione del pane: «La mia faccia da bischero garbò subito a Massimo».

La voglia di partire si fa nuovamente sentire e nel luglio 2012 lascia Modena per Parigi, dove in tre anni lavora da
Saturne con
Sven Chartier, da
Rino con
Giovanni Passerini, all’
Hotel Thoumieux con
Jean François Piège e da
Heimat di
Pierre Jancou. «Marco Pierre White diceva che i francesi cucinano con la testa, gli italiani con il cuore. Combinando le due, secondo me, sei un bravo cuoco».
Giovanni Passerini gli insegna a creare ascoltando la pancia, con
Piège affina tecnica e precisione mentre, quando tra un contratto e l’altro sostituisce lo chef il tempo di un servizio in svariati ristoranti parigini, impara a capire al volo la fisionomia di una cucina e di un prodotto. «Nei tre mesi all’
Hotel Thoumieux ho litigato con tutti tranne che con lo chef: so accettare la disciplina solo quando c’è rispetto. L’unico che mi rispettava era Piège».
Nonostante il rispetto e la stima reciproci tra
Michele e
Piège, il bisogno di libertà e la voglia di esprimersi sono più forti e quando
Pierre Jancou gli propone di aprire con lui
Heimat, non esita un solo istante: «L’esperienza di
Heimat mi è servita moltissimo per affrontare l’apertura di
Dilia: ho imparato dai miei errori e da quelli di Jancou».

Prima era Roseval. Ora è Dilia
Il 15 settembre 2015 apre appunto
Dilia, nel ventesimo arrondissement, prendendo il posto di
Roseval di
Simone Tondo.
Dilia è la sintesi perfetta delle sue esperienze passate e della sua attuale idea di cucina: libertà - parola che più volte ripete nel corso dell’intervista - passione, tecnica, creatività senza fronzoli, una cucina di alto livello che vuole restare facilmente accessibile.
I suoi piatti sono liberi da un’etichetta tricolore e in ognuno si percepisce il piacere che prova
Michele nel crearlo, spinto dalla pancia e guidato dalla testa, come il gustoso
Carciofo ripieno di cozze e midollo, l’insolita
Pasta con cannolicchi rafano e beurre noisette o la sorprendente
Ricciola con salsa di mallegato, spinaci al sesamo e ribes rosso.
A mezzogiorno un menu del giorno a prezzi leggeri (16 o 19 euro) e preparazioni semplici, mentre la sera,
Michele propone un menù a quattro portate (44 euro) e uno a sei (60 euro). Bella l’idea per sfruttare il bancone, dove si può bere un bicchiere accompagnandolo con uno o più piatti, o una pasta da 60, 90 o 120 grammi.
Quando gli spazi in cucina sono angusti, il menu fisso è un’esigenza, ma anche una sfida: «Ho imparato da
Giovanni Passerini, un maniaco del menu: nessuna tecnica e nessun prodotto devono ripetersi nei piatti». Non solo un’alternanza di prodotti o cotture: nei suoi menu
Michele combina piatti che giocano sulla creatività con altri che giocano sui profumi o sulle cotture, lasciando sempre il posto per un piatto “riconfortante”, che non richiede di essere capito.
«I menu troppo lunghi spesso mi annoiano e quelli troppo creativi mi stancano. Non si può giocare solo sulla creatività: mi piace inserire sempre un piatto riconfortante, spesso un dessert, che ti rilassi e ti soddisfi». Nonostante siano stati i grandi ristoranti a segnare la carriera di
Michele,
Dilia vuole essere pop o, ancora meglio, rock: «
Dilia è un buon ristorante di quartiere. Non mi piace l’idea del gastronomico: puzza di vecchio, di caro, di snob. A me piace cucinare per la gente normale, è per questo che ho scelto il ventesimo arrondissement».
Dilia
1, Rue d'Eupatoria
75020 Paris
+33.09.53562414
Chiuso domenica e lunedì