José Avillez, Diego Guerrero, Mehmet Gürs, Tim Raue. Un portoghese, uno spagnolo, un tedesco, un turco. Quattro grandi protagonisti della scena gastronomica mondiale, che abbiamo avuto il piacere e l’onore di ascoltare a Identità Milano. Ecco una cronaca dei relativi interventi.

José Avillez, 21 ristoranti tra Lisbona, Oporto e Dubai
Avillez: la rivincita del Portogallo
Ha 39 anni, 21 ristoranti, 600 dipendenti. Ultime aperture,
Casa dos Prazeres e
Rei da China, un locale dall’anima duplice di cucina asiatica, aperto proprio settimana scorsa nel Chiado, il quartiere di Lisbona colonizzato dal ragazzo. Se oggi le mappe della gastronomia mondiale guardano a lui come al Bottura del Portogallo è perché Avillez ha saputo «Creare nuove memorie, raccontando nuove storie», vero leitmotiv della lezione milanese.
Un moto d’orgoglio che ha stanato per un attimo il suo popolo dalla proverbiale timidezza e riservatezza: «Siamo stati noi a portare la tempura in Giappone, è giusto dirlo», ha rivelato. Ed è solo uno dei grandi apporti che Lisbona ha dato al mondo. Del resto, «la cucina e gli ingredienti sono in eterno divenire», ha spiegato, «e a beneficiarne siamo tutti». Una fratellanza che gli consente di armeggiare, accanto agli autoctoni gamberi e maiali, anche dashi e avocado, due tra le centinaia di tecniche e ingredienti che il suo popolo di navigatori ha importato dalle vecchie colonie. Portogallo riassunto del mondo e culla di nuove memorie. (
Gabriele Zanatta)

Mehmet Gürs, 20 insegne a Istanbul
Gürs: cose buone turche
«Un saluto al nostro grandissimo sponsor: la terra». Lo ha recapitato sul palco di
Identità Mehmet
Gürs da Istanbul, Turchia. Ha eletto a suo principale partner per l’appunto la terra (che sia con la maiuscola che lo identifica come pianeta o con la minuscola che designa il nostro fertile tappeto geologico in fondo non importa). Ma i partner vanno curati, mantenuti, accuditi. E Mehmet lo fa.
Ha raccontato ad esempio di quando un suo amico gli parlò di un frumento anatolico che stava per scomparire e che era tenuto in vita da alcuni eroici agricoltori (o pazzi?). «Fa’ qualcosa», gli intimò quella voce. E Mehmet con altri chef turchi si mosse e ora quel frumento da magnifico reietto è finito nelle carte dei migliori ristoranti del Paese. «L’altro giorno ho visto il pane fatto con quel frumento nel supermercato sotto casa», gongola.
Gürs lo cucina sotto forma di quenelle assieme a delle albicocche essiccate e a dei pistacchi («Che ci vogliono sempre», dice da buon turco lo chef). E ha preparato anche dei
tarhana, il piatto a base di cereali secchi fermentato nello yogurt con brodo di pollo, polpo, cavolo sottaceto e prugne verdi.
«In questo piatto vediamo diversi momenti della storia, diverse regioni, diverse etnie, diversi sapori e diverse idee».
Gürs è uno chef umanista, che dà grande importanza alle persone. I fornitori per lui sono prima di tutto umani. Racconta per esempio di un paese in cui uno ha incominciato a produrre more, poi tutti lo hanno imitato e alla fine la comunità si è raggrumata attorno a questa idea imprenditoriale/artigianale e ora se nessuno comprasse più quelle more l’intero paese morirebbe. Ma questo non vuol dire che agganciarsi alla pura memoria del passato sia l’unica strada possibile. «Il rapporto tra la tradizione e il bisogno di metterla in discussione è molto delicato», ha concluso
Gürs. Come non condividere? (
Andrea Cuomo)
Guerrero: monologhi sulla memoria
Cinque piatti ciascuno con un ingrediente in tre quarti d’ora, video compresi. Era la sfida di
Diego Guerrero, ragazzo cattivo (ragazzo si fa per dire: è del 1975. E cattivo si fa ancora più per dire, è solo che lo disegnano così) della cucina spagnola, di cui ha ridefinito i confini semplicemente facendo conto che non esistano. Difficilmente definibile, decide di affrontare il tema del congresso, la memoria, attraverso un percorso rigido e spietato, fatto di cinque monologhi per ingrediente solo. Obiettivo anche ridurre gli sprechi, utilizzando tutte le parti di ogni materia.
È partito con il
carabineiro, il gambero rosso dolce delle acque atlantiche, che viene separato nelle sue parti e ricomposto in una sorta di tartelletta. Si prosegue con il calamaro, che diventa bignè fritto morbido ed elastico, servito accanto a una salsa della stessa composizione in cui va pucciato. Ancora: una rosa di
pimiento asado, di peperone rosso grigliato, che nel suo ristorante
Guerrero propone con il lardo ma qui senza per mantenere l’integrità senza perdere in sapore. Un assolo di merluzzo morbido e
sabroso ricoperto da una spuma in consonanza che lo nasconde. Si chiude con un riso al latte in cui il riso viene fermentato quasi come un sakè e diventa una crema a cui uno stampo ridà la forma illusoria dei chicchi. Cinque episodi di una serie avvincente. Cinque come i sensi, tutti coinvolti, e solo l’ultimo cronologicamente parlando è il gusto, pensa tu. (
Andrea Cuomo)

Tim Raue, 45 anni, di Berlino, 2 stelle Michelin nella sua insegna ammiraglia di Berlino (37° nella World's 50 Best) e una terza stella al K by Tim Raue di Sankt Moritz, Svizzera
Tim Raue: fuck Instagram
Con
Tim Raue è salito per la prima volta sul palco di
Identità Milano un cuoco tedesco-tedesco (ci è salito spesso anche
Heinz Beck ma nelle sue vene scorre da tempo sangue italiano), una presenza importante perché Berlino, la città da cui proviene, sta dettando i trend e le suggestioni più interessanti alla Nuova cucina teutonica. Non ci si dimentichi, però, che
TR è un asso di cucina asiatica tanto che, ha ricordato in Auditorium, «ricordo benissimo un’intervista di Zanatta, 12 anni fa, quando lavoravo allo Swiss Hotel. Gli dissi che nel 2018 mi sarei visto a lavorare a Singapore. Non è andata esattamente così…». Ma la passione per l’Asia è sempre febbrile.
Meglio per lui, che oggi alle due stelle dell’insegna ammiraglia di Berlino ne ha appena aggiunta un’altra a Sankt Moritz, in Svizzera. Per non dire di tutte le altre insegne cutting-edge che gestisce, una decina in tutto.
Raue è tutto fuorché ruffiano e all’imperialismo dei social non le manda a dire: «Fuck Instagram, go out and eat», basta specchiarsi e specchiare piatti su Instagram, vai fuori, nella vita reale, e mangia, non fotografare. E stanne lontano pure tu, cuoco: «Ho imposto al mio cuoco di stare lontano dallo schermo, dalla tentazione di copiare i colleghi: oggi cucina meglio. Tra l’altro, è molto più di moda il buono che il bello, a chi interessa oggi che un piatto abbia forme perfette?». Ancora una volta, viva il gusto. (
Gabriele Zanatta)