Quando mi è stata chiesta una riflessione sul Fattore Umano, il tema del prossimo Congresso milanese di Identità Golose, inizialmente ho pensato di condividere un pensiero sul ruolo dello chef o del cameriere, figure giustamente al centro dell'attenzione e oggetto di ammirazione o critica.
Ragionando, però, ho pensato fosse meglio focalizzarmi su quello che conosco meglio: il mio lavoro. Il giornalista gastronomico, infatti, non si deve limitare a puntare i riflettori su chef o barman all'apice del successo, il suo ruolo è anche quello di raccontare storie di piccoli artigiani che lavorano duramente per consegnare un prodotto buono e giusto, di progetti volti allo sviluppo, di territori, di umanità, di personaggi che andando oltre il cibo parlano di cultura e segnano le epoche storiche. Tutto con un unico fil rouge: il rispetto. Rispetto del lavoro altrui e del proprio.
Già, perché a pensarci cos'è che differenzia e distingue uno chef bravo da uno meno bravo, un cameriere capace da un incapace, un giornalista serio da uno sciacallo? Le capacità e il talento sono sicuramente imprescindibili per una storia di successo, ma credo profondamente che alla base debba esserci un elemento ancora più fondamentale: per l'appunto il rispetto.
Lo stato ideale verso il quale l’agire di un uomo e dunque di un professionista dovrebbe tendere, universalmente riconosciuto come conditio sine qua non della moralità e della convivenza civile. Che anche nel nostro settore deve (dovrebbe) essere imprescindibile; non dimentichiamolo mai.

Alessandro Guidi e Cristina Franceschetti di Caraiba con Annalisa Zordan durante la premiazione di qualche mese fa
Il rispetto affinché sia autentico implica necessariamente conoscenza e consapevolezza. Ciascun attore, dallo chef al cameriere, dal cliente al giornalista, dovrebbe conoscere la propria parte e la parte di chi ha di fronte. Così come lo chef dovrebbe conoscere la materia prima e al contempo essere consapevole del valore del cameriere che porterà in tavola la sua creazione o dell'atto di fiducia del cliente che la mangerà.
Così il giornalista gastronomico dovrebbe conoscere innanzitutto il piatto e le materie prime di cui scriverà, dovrebbe mettersi nei panni del cameriere che lo serve e soprattutto dovrebbe essere onesto intellettualmente con il lettore, prendendosi le responsabilità delle proprie idee, dei propri argomenti, fino in fondo, magari cercando continuamente di mettere alla prova le proprie convinzioni.
Il che si traduce in una visione entusiastica, senza preconcetti, senza pregiudizi di quel che si vede, si assaggia, si ascolta. Non solo, significa essere aperti (e dunque liberi) alle novità senza prescindere dalla conoscenza del passato, delle tradizioni e dei grandi maestri che hanno fatto la storia gastronomica.
Significa aggiornarsi costantemente e investire sul proprio lavoro, anche a titolo personale; in poche parole vuol dire essere mossi da autentica passione. Si tratta sempre di rispetto, rispetto per quello che si fa e si costruisce giorno per giorno. Che poi a pensarci è la chiave della dignità. È questo a mio avviso il vero Fattore Umano: il sentimento attivo che muove chi vive e lavora bene.
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