08-12-2023
Jamin e gli UnderWaterWines: una ricerca approfondita su un affinamento unico a 52 metri di profondità
Moda o concreti miglioramenti? Suggestioni o cambiamenti provati scientificamente? Attorno ai vini affinati sott’acqua c’è un misto tra ricerca e mistero, che fa tornare alla mente quel relitto della nave affondata nel 1840 dove erano conservate a circa 50 metri di profondità alcune bottiglie di Champagne, ritrovate nel 2010: chi ha avuto modo di assaggiare quei vini, ha affermato che erano straordinariamente buoni.
Ma dalla storia, quasi leggenda, del relitto, si passa a una realtà ben più concreta: da qualche anno, infatti, alcune aziende hanno pensato che l’affinamento sott’acqua potesse portare beneficio ai propri vini.
C’è chi ha fatto di più: si chiama iinfatti Jamin Portofino UnderWaterWines, ed è una società che si occupa di ingegneria subacquea, con lo scopo di mettere in rete le aziende che vogliono sperimentare questo particolare tipo di affinamento.
Antonello Maietta, presidente a amministratore delegato di Jamin
Ma la sperimentazione non si basa su ipotesi empiriche. «C’è molta ricerca – spiega Maietta – il 30% delle risorse vengono proprio investite in ricerca, che è tantissimo. Ultimamente abbiamo concluso un crowdfunding per finalizzare la ricerca sui tappi e sulle gabbie, e sono stati raccolti 250mila euro».
Una ricerca avanzata con l’Università di Firenze, tramite anche l’enologo Alessio Bandinelli, con l’intenzione proprio di capire la differenza tra i vini “normali” e quelli che trascorrono un periodo sott’acqua.
Ma quali sono quindi queste differenze tra l’affinamento tradizionale, in cantina, e quello “in immersione”? «Cambia la temperatura – spiega Maietta - anche se questa si può ricostruire a terra con sistemi di climatizzazione. Il vantaggio del mare è che non richiede dispendio di energia. Però per non avere sbalzi ed escursioni termiche bisogna andare a 52 metri di profondità. E per questo servono subacquei professionisti».
Le bottiglie nelle ceste prima dell'immersione
«Un altro fattore – prosegue Maietta – è il buio. Non tanto per la luce in sé, basti pensare che a Portofino ci sono le rocce bianche che riflettono i raggi solari, ma è per i raggi ultravioletti, che si abbattono a partire dai -37 metri».
E poi c’è la pressione. «A terra non c’è questo fattore – precisa Maietta - A 100 metri di profondità ci sono circa sei bar di pressione, che ci porta a un’idea di pressione isobarica con gli spumanti, per esempio. Ma stiamo ottenendo risultati interessanti anche su altre tipologie di vino».
Infine il quarto aspetto riguarda le correnti armoniche. Le bottiglie sono stabili sott’acqua, ma il liquido al loro interno si muove. Un elemento, questo, ancora da valutare con maggiore attenzione.
Si devono raggiungere i 52 metri di profondità
E così nascono gli underwater, non per moda, ma per ricerca. «Noi mettiamo nelle ceste sott’acqua solo vini pronti, con tappo a sughero. Ogni operazione costa circa 26mila euro. Noi mettiamo 30 ceste da 500 bottiglie alla volta proprio per ottimizzare i costi. Il vino rimane underwater almeno 250 giorni, alcuni rimangono sommersi anche un anno».
A Milano c’è stata la possibilità di fare un paragone, rigorosamente alla cieca, tra i vini della stessa tipologia, ma con il diverso affinamento: tradizionale e underwater. Rispondiamo subito al primo dubbio che sorge spontaneo: sì, ci sono differenze, e anche non indifferenti. Dopo aver assaggiato i primi due vini, un bianco ligure vendemmia 2019 da Vermentino e Bianchetta, un rosato di Bolgheri (entrambi prodotti nati da bere in gioventù, e non studiati per avere una particolare longevità), i campioni underwater hanno denotato una maggiore freschezza e una particolare attitudine a una minore ossidazione, che influisce anche sulla vividezza del colore.
In ogni cesta ci sono 500 bottiglie
Discorsi simili riguardano un’Albana di Romagna del 2019, vino realizzato con macerazione, un Aglianico del Vulture del 2013, che partiva da una base già piuttosto evoluta prima di finire “in ammollo”, e un Marsala vergine riserva del 1980.
La conclusione è contemporaneamente semplice e complessa: quale dei due metodi è migliore? Al momento non c’è una risposta. O meglio, bisogna capire quale sia l’obiettivo finale del produttore e l’aspettativa del consumatore. Siamo comunque all’inizio di un percorso lungo e solo il tempo potrà effettivamente dire se lo sforzo vale il risultato.
Storie di uomini, donne e bottiglie che fanno grande la galassia del vino, in Italia e nel mondo
di
giornalista de La Provincia di Como, sommelier e appassionato di birra artigianale. Crede che ogni bicchiere di vino possa contenere una storia da raccontare. Fa parte della redazione vino di Identità Golose
Mattia Pecis, classe 1996, begamasco della Val Seriana, da due anni executive chef di Cracco Portofino
Riso di semola in zimino, ceci e calamaretti è il Piatto del 2023 di Davide Galbiati, chef del ristorante DaV Mare dell'Hotel Splendido Mare a Portofino (Genova)