L'altro giorno abbiamo assaggiato quello che, per chi scrive, è stato senza dubbio il Daniel Canzian migliore di sempre. È sempre stato bravo, l'ultimo grande allievo di Gualtiero Marchesi: l'impressione era però che dovesse ancora raggiungere la propria piena maturità stilistica, e che andasse messo meglio a fuoco il suo rapporto con Milano e il locale che vi ha aperto ormai da più di quattro anni - era l'ottobre 2013. Probabilmente uno dei luoghi del gusto più belli sotto la Madonnina - di "bellezza" in senso ambrosiano: non appariscenti, discreti, ma di classe.
Ha apportato cambiamenti anche alla struttura. E abbiamo scoperto dopo la nostra cena come tutto questo sviluppo, che ci era apparso evidente, risponda a un progetto preciso, Canzian lo chiama verso la purezza, e si prefigge lo scopo di acquisire una forma più chiara ed esplicita e di procedere verso una più marcata e riconoscibile filosofia in cucina, anche attraverso un coerente restyling dello spazio, affidato a una squadra di professioniste scenografe (lo studio di set & interior design di Francesca Pedrotti e Alice De Bortoli), e un team di sala competente. Obiettivo raggiunto, diciamo noi.
Vediamo la cucina, appunto.
Canzian è sempre stato legato alla tradizione italiana. È molto marchesiano, in questo senso: e proprio ora che il Maestro è venuto a mancare, pennella con la consueta grazia una sorta di zibaldone però mai così raffinato della nostra grande tradizione regionale, trasposta in una contemporaneità inclusiva, che non sgomita mai, è fatta di tocchi e nuances, fusioni perfette e leggeri ammiccamenti. Tutto è sussurrato, c'è cesello e non cazzuola. Tutto, per questo, appare ancor più armonico. «Mi piace l'idea di andare sempre più al cuore dell'italianità - ci spiega lo chef - Basta scimmiottare altre lezioni».
Il senso stesso del suo ristorante ora risulta finalmente nitido: locale borghese certo, con allure classica della quale dicevamo sopra, senza essere mai retrò, dove protagonista è la regionalità tricolore ma mediata dalla mano di uno chef sapiente e tecnico, che riesce a darle nuova vita e quindi rinnovato fascino, in un percorso coerente e in definitiva del tutto personale.

Canzian coi suoi collaboratori Matteo Moro (al centro) e Carmelo Gambino. Ci dice di loro: «Saranno dei grandi chef»
Che sia un cannolo di polenta e baccalà che guarda a Venezia, un 5 e 5 livornese, un panzerotto campano, una panada veneta, un brodetto dell'Adriatico, un babà partenopeo o una pizza all'amatriciana di richiamo laziale, non si ha mai la percezione - che sarebbe negativa - dell'antologia italiana purchessia, di maniera, della rassegna fine a sé stessa. Perché ogni preparazione è ripensata nella modernità e quindi segue il fil rouge di
Canzian, che ne filtra il potenziale rifrangendolo potenziato.
È una rilettura ambiziosa che riesce (può riuscire) solo e solamente se dietro c'è un lavoro intellettuale e gastronomico - quindi gastro-intellettuale - di ricerca e ripensamento critico, proprio dunque di un grande chef. Operazione d'alta cucina, certo (e tale è anche il servizio, ora affidato alla giovane maître
Giusy Chebeir), che disvela uno stato di grazia di
Canzian: quant'è difficile approcciarsi con tal successo alla tradizione, modellare con rispetto - e ricevendone rispetto - radicate icone culinarie territoriali italiane fornendone a conti fatti una versione riletta, proiettata al futuro,
à la milanaise -
Cracco in questi giorni ne sa qualcosa,
leggi qui - perché questa è una città che non perdona i passatismi.
Canzian c'è riuscito in modo straordinario. Benvenuto a Milano.
«Do valore a ciò che offre il nostro territorio. Non serviranno tecniche che vengono da lontano, come le fermentazioni, in contrasto con la freschezza e la leggerezza che contraddistingue il nostro microclima, è per me più coerente ripristinare quelle italiane, come gli sciroppati o i sottaceti. Credo nel potere della tradizione della cucina italiana, da tutelare e nobilitare, e nella materia prima, sempre italiana, fresca e di stagione» (Daniel Canzian)