Il contesto entro cui nasce questa collezione di racconti è fotografato con parole molto efficaci dalla scrittrice Camilla Baresani, nella presentazione del volume: «Donne che producono vino, donne che lo degustano, donne che lo vendono, donne che lo promuovono, donne che ne scrivono. Sono molte, sono sempre di più. E non c’è stato bisogno di quote rosa, né di suffragette immolate alla causa o di battaglie parlamentari per la parità di genere. È successo spontaneamente».
Già, ed è magnifico che a tratteggiare le protagoniste di questo moto “femminile plurale” sia Cinzia Benzi, tra le attrici silenziose della rivoluzione. Nata nel Monferrato, Benzi ama il vino da sempre. Così tanto da costruirci attorno una professione e una reputazione: oggi è la regista di tutte le operazioni eno-commerciali ed eno-editoriali di Identità Golose e i riguardi con cui è accolta in Sauternes farebbero invidia a una regina.
Eppure nel libro non c’è traccia di ego-riferimenti perché l’autrice fa suo il dovere di cronista appassionata: si sottrae dalla tentazione (comune a tanti) di parlare di se stessa e lascia sotto i riflettori 14 “dame del vino”, i soggetti di 11 storie tutte al femminile. Numeri di capitoli e protagoniste non coincidono perché ogni tanto capita che le epopee del vino non si sviluppino nel classico rapporto tra padre e figlio ma in quello tra madre e figlia (Anna e Valentina Abbona di Marchesi di Barolo), zia e nipote (Marilisa e Silvia Allegrini di Allegrini) o sorella e sorella (Susy e Caterina Ceraudo).

Cinzia Benzi, già autrice con Giunti di "Moreno Cedroni" (2011) e "Susci più che mai" (2014). E, per Gribaudo, di "Sauternes. Viaggio alla scoperta di un vino dolce leggendario" (2012)
Il viaggio parte proprio dal Sauternes, in Francia, coi ritratti di
Sandrine Garbay e
Julie Gonet-Médeville. Una buona premessa per capire quanto le pendenze scalate dalle donne siano più irte, in un mondo quasi solo popolato da pantaloni. «Il segretario dell’università di Enologia», scava nei ricordi con l’autrice
Sandrine, oggi enologa di
Château d'Yquem, «mi disse che stavo perdendo tempo perché una donna non è adatta a questo mestiere». Pochi anni dopo riceve una telefonata dal marchese
Alexandre de Lur-Saluces, proprietario della cantina più celebrata al mondo. «Pensai a uno scherzo». Nel 1998, per la prima volta un’enologa firma un Premier Cru Supérieur di Bordeaux.
Ricorda i pregiudizi anche
Ginevra Venerosi Pesciolini di
Tenuta di Ghizzano: «Mio padre non ci avrebbe portato con sé in giro per i campi in quanto "femmine"». O gli affanni
Cecilia Leoneschi, enologa di
Castiglion del Bosco: «Per natura devo andare, fare, cambiare, per crescere e megliorare. Da ragazza tendevo a farlo in maniera frettolosa e compulsiva». Sono storie di relazioni, anche sentimentali, difficili ma coriacee. Come quella di
Julie (
Château de Gilette) e
Xavier, costretti a curare vigneti separati da 800 chilometri, in Sauternes lei, in Champagne lui. O di
Raffaela Bologna con
Norbert, medico austriaco che ha abbandonato la professione per seguire la moglie in
Braida. Di avversione contro destini che paiono già scritti: «Essendo la femmina di casa», racconta
Cristina Ziliani, oggi responsabile vulcanica delle relazioni pubbliche di
Berlucchi, «ero destinata ai lavori più amministrativi in sede».

I proventi del libro sono devoluti interamente a "Food for Soul", l'associazione non profit del cuoco Massimo Bottura, che firma la prefazione del volume
Sono epiche avventurose, come quella di
Camilla Lunelli di
Cantine Ferrari, a lungo volontaria in Niger, nella gestione dei campi profughi per conto della
United Nations Volunteers. E ancora,
Caterina Ceraudo, enologa prima che cuoca, doppiamente penalizzata dal sudare nel profondo Sud (come anche
Silvia Maestrelli dell'etnea
Tenuta di Fessina), difficoltà scansate con qualche lacrima, inventiva, olio di gomito e la complicità di
Susy, la sorella maggiore, altra grande donna del vino.
Sono racconti che mettono in un angolo descrittori, gialli paglierini e mineralità per concentrarsi sull’anima di chi produce il vino. Un’anima che siamo costretti a definire “rosa” in attesa del giorno, ancora lontano, in cui sparirà ogni colore.