«Cosa vai a fare a Milano? - cercavano di dissuadermi amici e colleghi - Gastronomicamente non c’è nulla di interessante».
«Non datemi consigli: so sbagliare da me»: Carlo Cracco deve averla pensata proprio come Pitigrilli e non si è curato troppo di coloro che gli suggerivano di star lontano dal capoluogo lombardo. Così vi lavora e risiede stabilmente dall’8 gennaio 2001 (con l’avvio di Cracco-Peck), quando le Torri Gemelle erano ancora in piedi, e dal 21 febbraio 2018 vi si è radicato ancor più strettamente, con l’inaugurazione del suo Cracco in Galleria - che è insieme café, ristorante, luogo per eventi e cantina - nel salotto buono cittadino: progetto ambizioso, accurato. Dispendioso, anche: “Sono operazioni che sommano debiti, certo, ma diciamo sempre che è meglio accumulare debiti che soldi: significa che hai un lavoro vivo, capace di alimentare ogni giorno la nostra passione romantica e anche un po’ incosciente. È la passione per la cucina, un fuoco che brucia indipendentemente dal profitto e che ogni giorno dà forma a una proposta che non è italiana o milanese, classica o innovativa ma è il lavoro di tante persone diverse, alimentate dalla stessa fiammella”.

È una citazione che traiamo da un gran bel volume, freschissimo di stampa (l’edizione italiana è di
L’ippocampo. Tempo un paio di settimane e uscirà anche quella in inglese, per i tipi di
Phaidon), a lungo atteso e che proprio al grande progetto dello chef vicentino è interamente dedicato:
Cracco in Galleria – 366 pagine, 49,90 euro,
per acquistarlo clicca qui – racconta un sogno diventato realtà grazie al coraggio e alla perseveranza di
Cracco e del suo chef
Luca Sacchi. Lo fa attraverso la scrittura di
Gabriele Zanatta, che ha trasposto tutto quanto su carta, e all’immaginazione di
Maurizio Cattelan con
Pierpaolo Ferrari, Alberto Zanetti e
Sebastiano Mastroeni (ossia
Toilet Paper), che hanno condensato l’insieme in immagini bellissime e immaginifiche.
È così partorito un tomo che, per dirla con Cracco stesso, «è la sintesi di come intendiamo un libro di cucina oggi, noi che ne abbiamo scritti già tanti altri». Concetto esplicitato da Luca Sacchi: «Volevamo qualcosa di innovativo, ancorché contenesse comunque ciò che c’è sempre in testi di questo tipo, quindi le ricette, le belle fotografie eccetera…». Chiosa di Ferrari: «L’esito è un volume eccentrico, originale, direi unico».
Il pregio di
Cracco in Galleria è di raccontare sé stesso, ossia di narrare fedelmente l’anima di un progetto maestoso, ma di farlo estendendo lo sguardo al circostante, immergendosi nel contesto in cui si trova, perché proprio di questa simbiosi è animato l’intero disegno:
Cracco in Galleria è Milano, o almeno un suo estratto importante; le appartiene; appare la trasposizione del suo spirito imprenditoriale, dell'impegno culturale, di un’anima profonda, di un genius loci. Affonda le proprie radici nell’humus meneghino. Ne trae forza.
L’idea di avviare Cracco in Galleria – intendiamo ora il ristorante, non il libro – è innervata di milanesità. Già nella scelta del luogo, la Galleria Vittorio Emanuele, tra i maggiori simboli della metropoli, «siamo nel cuore più cuore di Milano, di più c’è solo il Duomo ma lì non ci avrebbero concesso i permessi» ironizza Sacchi (invece l’edificio in Galleria, di proprietà del Comune, era sfitto da decenni, “un insieme fatiscente, calcinacci ovunque, cadeva tutto a pezzi. Poi guardiamo fuori dalla finestra, vediamo brillare l’Ottagono sotto la cupola di vetro e ferro e rimaniamo a bocca aperta. Quella che sulle prime appariva come una missione impossibile, un minuto dopo diventa un’opportunità troppo bella da lasciarsi scappare”, così Cracco rammenta la sua prima visita, in compagnia della moglie Rosa Fanti).

"Sdraiato", l'edificio che ospita Cracco in Galleria, con l'indicazione dei vari spazi: da sinistra la Sala Mengoni, il ristorante, il bistrot, la cantina
Poi milanesissimo è l’approccio alle opere di restauro e rimessa a nuovo, con la scelta di richiamare l’antica vocazione artigiana della Galleria (“Luogo così denso di storia che, nei primi tempi, ospitava principalmente caffè e grandi artigiani di tessuti, scarpe, cappelli, un fatto che mi aveva sempre colpito”) coinvolgendo “un centinaio tra decoratori, gessisti, tappezzieri, muratori e falegnami” che “hanno cesellato un contenitore di eleganza ed essenzialità milanese e internazionale, una contraddizione solo all’apparenza perché coerente con la grande vocazione all’apertura della città, da sempre capace di assorbire e dare, apprendere e insegnare nella stessa misura”. Una vera istituzione meneghina è lo
Studio Peregalli Sartori, che ha curato la ristrutturazione. Milanese è lo spirito di
Toilet Paper. Milanese è
Luca Sacchi, anzi abbiantense per la precisione. Milanese è
Gabriele Zanatta, nato e cresciuto in città, anche se – come quasi sempre accade qui – con origini che vanno dal Nord al Sud. E, poiché sotto la Madunina vale di più lo
ius loci dello
ius sanguinis, ossia “milanesi si diventa”, tale è ormai pure il vicentino
Carlo Cracco. Che così ci risponde quando gli chiediamo della sua
ambrosianità acquisita: «Ciò che adoro di Milano è la sua capacità di accogliere, di dare opportunità. Questo è un luogo che, se sai fare bene il tuo lavoro, te lo riconosce, anche se vieni da fuori. In questo ultimo decennio, poi, tale vocazione è stata riconosciuta sempre di più anche all’estero: prima Milano era il “faro del saper fare” solo agli occhi degli italiani, ora è vista in tal modo anche a livello internazionale, tutti sanno che è una città avanzata, dinamica, recettiva; tutti ti dicono subito: “Milano?
Amazing city!”. Io mi ritrovo molto in questo spirito, che premia il merito, il lavoro, l'idea, il progetto».

Carlo Cracco in uno scatto tratto da Cracco in Galleria
Cracco in Galleria – questa volta il libro, non il ristorante - narra tutto ciò. E narra ovviamente la tavola di
Cracco e
Sacchi, che ne è il riflesso compiuto perché si diverte sempre più a recuperare piatti della tradizione territoriale, “espressioni di cucina contadina lombarda che cerchiamo di nobilitare anche attingendo a tecniche di paesi lontani, ma piegate sempre alla storia dei luoghi che ci appartengono”. E ancora: “Dall’apertura in Galleria, nel febbraio 2018, il nostro centro d’attenzione è sempre più Milano e la regione cui appartiene”. E in definitiva, più compiutamente: “Al ristorante ci sforziamo ogni giorno di intrecciare accoglienza e cucina, storia e avanguardia, Milano e il mondo”. I piatti sono esposti esplicitando il pensiero che li ha generati, ossia illustrandone prima la natura intellettuale, poi la strepitosa forza gustativa.

Piccione in farcia, verza e sanguinaccio

Selezione di frutta ghiacciata
Un’ultima considerazione. Milano, si sa, a volte divora i propri figli, è città così ansiosa di cambiare, di assorbire novità e di evolversi, da curarsi poco di valorizzare, di consolidare ciò che già esiste. Qui
Cracco in Galleria – il ristorante, non il libro – esprime invece un’ambizione diversa, che è quella di
Carlo Cracco e
Luca Sacchi. Spiega quest’ultimo: «L’intento è di donare a questo luogo una propria forza capace di durare». Scrive
Cracco, per il tramite di
Zanatta: “(Al
Cracco in Galleria) c’è Milano ma anche l’eco dell’architettura del ferro di Parigi, l’Europa ma anche i tratti d’Oriente che rasserenano qua e là. Uno scrigno che attraversa le epoche, partendo dall’Ottocento, filando spedito tra gli anni Venti e i Quaranta e approdando alla contemporaneità. Che non si arena all’oggi: uno degli obiettivi più importanti era costruire un ristorante che potesse invecchiare bene, tradurre un pensiero architettonico destinato a durare nel tempo, come succede alle maison d’Oltralpe più riuscite”.
Cracco in Galleria è un progetto fuori dal tempo, il ristorante più bello della città legato alla città. “Un sogno che si arrampica su 4 piani”.