Dopo la prima parte, pubblichiamo la seconda dell’intervista a Gualtiero Marchesi, cuoco che oggi si divide tra il ristorante omonimo di Erbusco, in provincia di Brescia e il Marchesino a Milano. In fondo all'articolo, una galleria con alcune foto ai piatti del suo attuale menu.
Fin qui, abbiamo parlato soprattutto del rapporto con i suoi allievi. In generale, quale valutazione dà dell'alta cucina oggi?
Parafrasando quel motto direi così: ‘l’alta cucina è morta, viva l’alta cucina’. In realtà le cose stanno cambiando, in meglio e in peggio.
Dove converge il meglio?
Credo che il futuro sia la cucina di territorio: così carica, entusiasta, figlia di microclimi diversissimi, lontana dalla cultura cittadina. E lo dico io che sono uno sporco cittadino.
C'è ancora spazio per l’innovazione?
Quando avevo 27-28 anni giocavo a fare il creativo, esibendo una cucina personale. Ma dai Troisgros ho capito che noi dobbiamo essere prima di tutto garanti di una cucina pre-esistente. Dobbiamo modernizzare piatti che esistono già. Il mio Pollo da Kiev a Kiev (il classico piatto ucraino, trasformato al Marchesino in due cubetti di pollo infilati in uno stecco, ndr) è un buon esempio di cosa intendo. Così come il Dripping in chiave dolce (vedi fotogallery).
Jacques Maximin e Ferran Adrià concordano nel dire che creatività è non copiare.
Non sono d’accordo perché nulla si crea dal nulla. Io sto con Albert Einstein: il segreto della creatività è saper nascondere le proprie fonti. E poi essere moderni si può fare solo nei limiti entro cui ci concedono di esserlo: la gente deve pur sempre venire a mangiare. E stare bene prima di tutto in sala.

Gli splendidi torchi d'epoca in sala a Erbusco. Nella tradizione francese sono strumenti indispensabili per servire al tavolo lo chateaubriand, la testa di un filetto di manzo, in due porzioni
La figura del maître però è sempre più impopolare.
Più che altro sta sparendo completamente il ruolo. Una volta c’era il
maître de plaisir, istruito e istintivamente portato a dare piacere all’ospite, a ogni costo. In Francia, ma c'era grande attenzione anche in Giappone, nelle cene
kaiseki.
Ci racconta un esempio?
Una volta mi portarono un pesce palla con la testa che si muoveva ancora. Lo sfilettarono a sashimi sotto i miei occhi. Portarono via la testa e dopo qualche minuto me la riconsegnarono in tempura. È l’imbandigione: sapere mettere in scena la materia prima (al tema Marchesi dedicò proprio un libro, “L’arte dell’imbandigione”, Guanda 1992, ndr), una dote che richiede grande conoscenza dell’anatomia animale, poco coltivata dai nostri cuochi. E anche una bella disponibilità a spendere.
Tanto elevata?
Sì, perché occorrono pezzi quasi da collezione (dice indicando la straordinaria collezione di torchi per chateaubriand e shaker a forma di campana presenti in sala a Erbusco). Vorrei tanto ripresentare a tavola il grande rito del bollito misto. Ma un carrello come si deve può arrivare a costare anche 15mila euro.
Diceva dell’anatomia animale.
I cuochi devono studiare i vari tagli di un manzo molto più di quello che fanno. E devono andare al mercato per davvero e non a parole. Dal 1977 al 1992, quando stavo in via Bonvesin de la Riva a Milano, lo facevo quasi quotidianamente.

Marchesi stringe la copertina del menu Verso la Purezza. L'illustrazione di copertina, scritta con tratto volutamente infantile, è dell'artista Libero Gozzi
Quando torna a Milano oggi, se non è al Marchesino, dove va?
Ogni tanto ripercorro i luoghi che mi riportano col pensiero ai vecchi amici: che bisbocce con
Pietro Manzoni nei locali attorno a via Santa Marta. Sennò vado per botteghe. Ci sono posti che amo da sempre, come la
Fornace Curti vicino al Naviglio Grande, fantastici artigiani del cotto. In via Melone, traversa di via Brera, ho scoperto invece di recente uno splendido negozio che fa sculture di animali in legno con le radici degli alberi. Davvero splendidi.
E per mangiare?
È difficile che esca. Mi piace il Ciak di piazzale Susa: fanno spaghetti al pomodorino semplici, squisiti. Un tempo mi fermavo nelle trattorie milanesi ma oggi non si può: un ossobuco bollito è una mappazza, meglio star leggeri con un giapponese. Se invece voglio mangiare dei grandi tortelli di zucca vado dai Due Platani a Coloreto di Parma.
Tortelli più buoni di quelli del Pescatore di Canneto?
Buonissimi. Pensi che una volta fu lo stesso Antonio Santini (patron e maître del Pescatore, ndr) a dirmi che quelli che facevo io erano meglio dei suoi. C’è più armonia tra gli ingredienti, mi disse.
Quale corso sta invece prendendo la sua cucina, oggi?
Quello della purezza. Che è conseguenza della semplicità. Di un pensiero cioè che constata che la materia è prima di tutto forma. Il mio amico Josko Gravner sostiene che se si manipola troppo quel che la natura ci ha dato, si uccide la complessità e si perde la visione delle cose.
Una radicalizzazione del suo stesso concetto di "meno cucina"?
In un certo senso sì. Perché bisogna suonare solo le note necessarie, dice il trombettista Enrico Rava. Sottrarre fino all'essenziale. Solo così possiamo risvegliare le papille gustative dei clienti dormienti.