La ristorazione soffre e il fine dining è morto. Quante volte abbiamo ascoltato i refrain negli ultimi mesi e quante poche volte – mai - l’abbiamo visto suffragato dai dati: il fact-checking vive una stagione storicamente infelice e così le leggende popolari decollano nei passaparola inverificati dei social, come quella che vorrebbe Milano insicura e violenta in modo crescente (ma nel 2024 i delitti sono calati del 13,5% sul 2023).
L’impennata dei costi delle materie prime e – soprattutto – il costo del personale rendono la vita difficile al ristoratore, non c’è dubbio, ma capita anche che l’inflazione venga presa a pretesto per alzare i prezzi in modo indiscriminato. In città, tuttavia, si nota anche un interessante fenomeno contrario: sta fiorendo una genia di giovani ristoratori che si sforza di fare una cucina di qualità, rilasciando uno scontrino medio che non spegne il sorriso del cliente - che a Milano vuol dire 40/50 euro, più che in ogni altra città d’Italia. Un tempo avremmo chiamato insegne come Ai Fiori Blu, Sandì o Trattoria della Gloria tavole di quartiere per la capacità, oggi come allora, di assolvere a una funzione prima di tutto sociale: aggregare e far stare bene gli abitanti del circondario.


Cucina a vista e soppalco
Sono sensazioni che abbiamo provato seduti a un’altra tavola con neanche un anno di vita,
Cucina Franca, due vetrine e una ventina di coperti di successo in via Friuli, non lontano da corso Lodi. Apertura che si è aggiunta al già vivace
Largo Bar, all’inizio della stessa via. «Al
Mirazur ho imparato tantissimo», si racconta lo chef e co-patron
Facundo Castellani, argentino come
Mauro Colagreco, studi in Antropologia, «ma avevo un grande dispiacere: potevano permetterselo in pochi. La cucina è democratica per definizione e da Cucina Franca cerchiamo di ricordarcene ogni giorno». Applicando ricarichi ridotti su cibo e vino: i piatti costano al cliente da 8 a 16 euro e in carta ogni sera ci sono solo una ventina di etichette. I cuochi si fanno il mazzo con preparazioni supplementari per evitare di sprecare alcunché: «Se una ricciola ci costa 26 euro al chilo, piuttosto spendiamo un paio d’ore in più a lavorarla per servire anche il collare o le lische e ammortizzare la spesa al cliente. Sono tutti equilibri tra economia e sapore».
Il 34enne di Cordoba, giramondo da quando ne aveva la metà, parla in prima personale plurale perché i soci del locale sono 4, di cui 2 operativi al servizio: in sala c’è l’amico di lungo corso
Gianluca Santamato, ex cuoco convertito ai piaceri della sala. E da qualche mese si è aggiunta dietro al vetro della mini-cucina
Arianna Consiglio, catanese che ricordiamo bravissima ai tempi dello sfortunato
Exit Pastificio. Sous chef? «No no, lei è una chef-chef», tiene a precisare Castellani, «appena abbiamo capito il suo valore e le abbiamo assegnato responsabilità importanti. Così oggi facciamo insieme solo un paio di servizi a settimana, 4 li fa lei da sola, 4 io e viviamo tutti più sereni». Confermando un sospetto di Colagreco: «Caro Facundo», gli disse ai tempi in cui era sous chef a Mentone, «tu sei troppo buono».
In realtà, l’abolizione delle gerarchie verticali della ristorazione classica e il benessere psicologico ed economico di cuochi e camerieri sono due caratteristiche essenziali dopo il calo di vocazione post-covid. È un salto grande rispetto alle generazioni precedenti di cuochi, troppo gelosi di cedere o condividere lo scettro, e inclini a far lavorare i nuovi arrivati per un monte di ore assurdo, e con compensi da
manina. «Io sono felice del mio stipendio», conferma Arianna Consiglio, che ha trovato l’incarico candidandosi su Linkedin, «soprattutto, sono felice di lavorare con persone legate da rispetto reciproco». Nello specifico, 4 cuochi, 1 lavapiatti, 3 ragazzi in sala, tutti con un regolare contratto e nessuno che sfora le 40/45 ore di servizio a settimana.

CONDIVISIONI VEG. Scarpettiamo in Palestina (huweirrah, yogurt, senape, coriandolo e pane all'origano) e El coliflor de tu vida (cavolfiore, tahina, mustia e sesamo)

Tutto è buono con la stracciatella (stracciatella affumicata, finocchi brasati, cedro, semi) e Orsola voleva i carciofi (carciofo violetto, kilombo di agrumi, aguachile di arancia bruciata)

ARGENTINITA'. Empanadas di carne e Asado y pimienta (asado di Aldo, salsa al pepe nero, contorno del mercato)
Il menu di Cucina Franca è un florilegio di verdure, qualche pesce e poca carne. Il che è una notizia per un cuoco argentino: «Quando torno al mio paese», scherza Castellani, «per darmi il benvenuto mi fanno 15 grigliate in una settimana. Sono stato vegetariano per 3 anni ma ora mi concedo del pesce, così mia nonna non pensa che io sia malato». Cipollotto, porri, asparagi selvatici, cardoncelli… Nella sequenza irrequieta delle pietanze, condita da nomi ironici che forse sovraccaricano contenuti già densi, c’è sempre una verdura al centro del pianeta e questa ha condimenti satellitari forti, con alchimie che ricordano qua e là
Yotam Ottolenghi: harissa alle nocciole («ho girato tanto l’Africa del nord»), olio ai porri bruciati, dashi affumicati… Spezie, acidità, bontà. Tutto va provato in condivisione e non c’è una divisione rigida di portate, se non un cappello finale dedicato a specialità
street (ora ci sono Chicken masala ed Empanadas di montagna).
A proposito, i ragazzi stanno allestendo un food truck che incarterà panini e simili (sviluppati con
Davide Longoni) per festival come
Ape nel Parco. Così la tavola di quartiere scavalca il quartiere.