E Pinchiorri si guadagnò un nuovo palcoscenico. Il sipario si è aperto nel quartiere DIFC, il centro finanziario internazionale di Dubai, a neanche 2 chilometri dalla vetta glittering del Burj Khalifa. In ordine di tempo, è il quarto ristorante dell’Enoteca, dopo la casa madre di Firenze (il cui ingresso Giorgio Pinchiorri varcò per la prima volta nel 1972) e le insegne giapponesi di Tokyo (1992, ora chiusa) e Nagoya (2008).
Sono ancora giorni di soft opening per il ristorante emiratino, disegnato al primo piano della food court del Burj Daman, un complesso di 3 torri e 14 livelli tra hotel di lusso, appartamenti e uffici ancora da popolare. Come tanti grattacieli della rovente metropoli, la struttura è stata eretta in tempi record: i lavori sono terminati poco meno di un anno fa, la qual cosa vi costringerà a riferire ai tassisti ignari l’indirizzo "Al Sa'ada street" (ma mostrategli anche la foto dei grattacieli precedentemente screenshottata, sennò si fa notte). Dentro, 90 coperti puliti tra luci soffuse, divisi da lampadari decorati a mano, sculture in vetro di Murano, tavoli in marmo di Carrara e la proverbiale cura per il minimo dettaglio.

PASTA PER DUE. Agnolotti stufati con zucca mantovana, mandorle burro e salvia. Il piatto è piazzato al centro del tavolo, per essere condiviso
La proprietà di
The Artisan è dei fratelli e imprenditori libanesi
Firas e
Hassan Fawaz. La carta concessa a
Giorgio e
Annie Féolde («La Signora», la chiamano proprio così, in italiano) è ovviamente bianca. Meno scontato, invece, il format da mettere in pratica: «Non faremo
fine dining nel senso che conosciamo», spiegano a più riprese i ragazzi di sala e cucina, metà italiani e metà no, «perché l’alta cucina a Dubai non tira». Verissimo, per due motivi: la guida Michelin non è ancora scesa ad assegnare stelle, la qual cosa rende sì più liberi ma obiettivamente non fa alzare livello medio e ambizioni come altrove nel mondo. Secondo: per troppo a lungo, la scena della ristorazione cittadina è stata scritta da chef in parabola discendente, attratti dai petrodollari utili ad aggiustare conti traballanti altrove, con esiti spesso discutibili (e chiusure repentine).
Ma con l’
Expo alle porte (calcio d’inizio, 20 ottobre 2020) e i riflettori del mondo sempre più orientati al Golfo Persico, non c’è più spazio per bluffare, e lo sa bene tanta Italia scesa in campo relativamente da poco per fare qualità e scavalcare la dannata equazione cucina tricolore=pizza (qui ancora imperante): i
Pinchiorri sono in buona compagnia con
Heinz Beck al
Waldorf Astoria,
Enrico Bartolini al
Roberto’s, le corazzate di
Armani e
Bice,
Alfredo Russo al
Vivaldi, il bravo e silenzioso
Alfonso Crescenzo allo
Splendido del
Ritz Carlton,
Marco Torasso nelle due torri
Grovesnor House, per non dire del faccione dell’anglo-italiano
Giorgio Locatelli che svetta dentro all’
Atlantis accanto a quelli di
Gordon Ramsay e
Nobu Matsuhisa.

Foto di gruppo, questa volta della brigata di cucina. In piedi si riconosce l'executive chef Luca Tresoldi (al centro, abbracciato ai proprietari libanesi Firas e Hassan Fawaz). Accosciato in casacca bianca, Riccardo Monco, primo chef a Firenze e co-responsabile della linea di cucina di Dubai ("Con Luca siamo sempre su Skype", spiega)
Ma qual è il modello di ristorazione scelto dall’
Enoteca a Dubai? Lo
sharing, la condivisione dei piatti tra i commensali, «una mossa», ci racconta l’executive chef
Riccardo Monco, «con cui proviamo a scendere di due gradini dal nostro modello, per misurarci con formule nuove», che poi tanto nuove non sono, «pensate alla centralità del concetto nella tradizione delle famiglie italiane», spiega il ragazzo. Certo è curioso vedere il suo braccio armato in terra araba
Luca Tresoldi fare uscire nello stesso intervallo primi piatti come
Agnolotti stufati con zucca mantovana, mandorle burro e salvia e
Spaghetti alla chitarra con frutti di mare, posizionati entrambi al centro della tavola per essere avvoltolati da forchette diverse (e lo stesso accadrebbe con le
Penne all'arrabbiata o con il
Risotto con porcini e tartufo nero). È la democratizzazione dei
Pinchiorri che, vista l'informalità, potrebbero persino virare verso più turni per servizio (ma qui sarà dura ottenere il benestare della Signora).
Va da sé che la qualità delle materie prime non scenderà alcun gradino: è rigorosa e senza concessioni. Tutti gli ingredienti vengono dall’Italia e questa è già una notizia felice in un'isola che pratica largamente esercizi fonetici di Italian sounding. All'Artisan niente pesce oceanico; solo Mediterraneo a dar forma da subito a starter come Carpaccio di tonno marinato con capperi, pepe rosso e aceto balsamico o Calamari fritti con lime e maionese chili (da compartire, naturalmente). Con ingredienti-perla come Burrata d’Andria, bovina fassona (la carne ha ottenuto, da pochissimo, la certificazione halal, ci informa Riccardo Uleri di Longino e Cardenal) o l’Aceto Balsamico di Modena 35 anni di Malpighi, accaparrato in esclusiva.

Dal piano terra del complesso che ospita The Artisan si intravede la vetta luminosa del Burj Khalifa, 828 metri d'altezza, simbolo della città che ospiterà Expo 2020
E il vino, l’orgoglio della casa? Intanto, la legge emiratina non consente il display di bottiglie alle pareti: l'alcol c’è ma non si deve vedere. Nemmeno dietro al bancone dei cocktail appena dopo l’ingresso: al massimo è possibile poggiarci sopra due mini-barrique (da cui usciranno presto cocktail invecchiati
wine-based). Interessante è il fatto che la carta curata dal sommelier turco
Alper Billik e dal maître napoletano
Costanzo Scala si apra con una piccola e preziosa selezione “from the cellar of mister
Giorgio Pinchiorri”:
Sassicaia 2015,
Ornellaia L’Infinito 2011,
Masseto 2011. Ma anche
Cheval Blanc e
Château Latour, entrambe 2005. Dopo una piccola scelta al bicchiere e gli champagne, parte la lista vera e propria, coi vini italiani e francesi divisi per genere e regione. In un paese in cui un Gavi da supermercato può costare 140 euro, colpiscono i ricarichi tutto sommato contenuti.