In un’epoca dominata dall’eccesso – di forme, colori, consistenze – togliere è diventato un gesto radicale. Non si tratta di minimalismo fine a sé stesso. È una scelta precisa: fare spazio all’essenziale. Restituire centralità al gusto, alla materia prima, all’idea.
Questa tendenza non nasce oggi. Affonda le radici in una reazione naturale a una certa stagione dell’haute pâtisserie – soprattutto tra gli anni ’90 e i primi 2000 – in cui i dolci cercavano di stupire con costruzioni elaborate, impiattamenti spettacolari, decorazioni barocche.

Infiniment Vanille di Pierre Hermé
Tra i primi a invertire la rotta è stato
Pierre Hermé, pasticcere francese, che con creazioni come
Infiniment Vanille ha dimostrato che tre tipi di vaniglia, lavorati con rigore e misura, possono creare un dolce di rara profondità senza bisogno di nulla di più. Da lì si è aperto un nuovo capitolo.
Oggi, uno degli esempi più chiari di questa filosofia è Maxime Frédéric, alla guida della pasticceria del Cheval Blanc di Parigi. La sua millefoglie è diventata iconica proprio per ciò che non è: non ci sono decori vistosi, né accostamenti urlati. Solo una sfoglia croccante e una crema alla vaniglia eseguita alla perfezione. Il risultato è un dolce che conquista, non perché grida, ma perché sa parlare.
Anche in Italia questo approccio ha trovato interpreti autorevoli.
Corrado Assenza, nel suo laboratorio di Noto, ha fatto della semplicità la sua firma. I suoi dolci valorizzano gli ingredienti del territorio, lavorati con rispetto religioso. Frutta, miele, latte, spezie: nessun elemento é puramente decorativo ma tutti sono necessari e complementari. Lo stesso discorso vale anche in cucina, dove
Niko Romito ha portato avanti un percorso simile. La sua idea di piatto – essenziale, calibrato, centrato – si riflette anche nei dessert, dove la pulizia del gusto è più importante della spettacolarizzazione.
Romito ha dichiarato più volte che “semplificare è complicato”, e in pasticceria questa affermazione vale il doppio.

Corrado Assenza e Niko Romito
Perché semplificare non vuol dire “fare meno”. Vuol dire scegliere. E ogni scelta comporta una rinuncia. Ma anche una direzione chiara.
Oggi questa visione si sta diffondendo: è sempre più presente nei ristoranti fine dining, ma anche in laboratori artigianali di nuova generazione. Non è ancora la norma, ma sta diventando un segnale di qualità.
Molti consumatori associano ancora l’idea di “valore” a ciò che è abbondante, decorato, stratificato. Far capire che “meno è meglio” richiede cultura, educazione, fiducia. Chi padroneggia la sottrazione, però, cambia le regole del gioco. Non cerca di stupire: cerca di comunicare. Con meno.
È una grammatica nuova, che chiede rigore. Che rispetta il tempo di chi assaggia. E restituisce dignità al singolo ingrediente. Perché se tutto è decorazione, niente è davvero importante. E se il gusto è coperto, sparisce anche l’intenzione.
Sottrarre, oggi, è un gesto potente. È scegliere la chiarezza. Raccontare una storia lasciando solo le parole necessarie.