C’è un terreno ancora poco esplorato, eppure estremamente fertile, dove la pasticceria incontra la psiche. È un punto di contatto inaspettato, in cui il dolce smette di essere solo piacere, estetica o comfort, e diventa un vero e proprio specchio emotivo. Ci dice chi siamo, di cosa abbiamo bisogno. A volte persino cosa ci è mancato. Perché il modo in cui scegliamo un dessert - e soprattutto quale - svela molto di più di noi, di quanto vorremmo ammettere.
Le neuroscienze e la psicologia comportamentale iniziano a indagare questi meccanismi con crescente attenzione. Uno studio della Cornell University (The Effect of Emotional State on Taste Perception, letteralmente “l’effetto del nostro stato emotivo sulla percezione del gusto”) ha dimostrato, ad esempio, che la dolcezza percepita di un alimento cambia a seconda dello stato emotivo della persona. Se siamo felici, un dolce può sembrarci più buono. Se siamo ansiosi, meno soddisfacente. Il gusto, in altre parole, non è mai oggettivo: è un riflesso del nostro mondo interno.
La memoria gustativa, in particolare per il dolce, è strettamente legata ai primi meccanismi di attaccamento: il latte materno, la rassicurazione, la cura. È da lì che nasce il legame profondo e viscerale che abbiamo con i dessert. Ecco perché un dolce non è mai solo un dolce. È un ponte tra chi siamo oggi e chi siamo stati. Un codice affettivo, prima ancora che gastronomico.
Questo ci porta a un punto chiave. Mentre l’alta pasticceria contemporanea – soprattutto quella da ristorazione – si racconta spesso attraverso un’estetica cerebrale, talvolta volutamente disturbante, c’è un consumatore che, dall’altra parte, cerca nel dolce una carezza, un riscatto, un riconoscimento silenzioso. Ecco dove, a volte, si crea una frattura. Perché se è vero che il dessert deve rispondere a una logica tecnica e sensoriale, è altrettanto vero che chi lo sceglie lo fa spinto da dinamiche intime, inconsce e altamente individuali. Non tenerne conto, rischia di rendere la narrazione gastronomica difficile da decifrare. O peggio: dissonante.

Coloratissimi macarons...
Facciamo un esempio. Una persona che sceglie consistenze morbide, sapori rotondi, rassicuranti, senza picchi gustativi, spesso è alla ricerca di una forma di contenimento emotivo. Qualcosa che “copra”, che protegga. Chi invece predilige l’amaro – pensiamo al cioccolato fondente, al caffè, agli agrumi intensi – mostra spesso un’indole più autonoma, risoluta, talvolta persino provocatoria.
Questi non sono cliché: sono pattern emotivi, che si riflettono nelle preferenze gastronomiche. E, per chi fa pasticceria, rappresentano un linguaggio da imparare a leggere.
Perché il dessert è l’ultimo piatto del percorso, sì. Ma è anche quello in cui – finalmente – ci si arrende. Alla dolcezza, alla memoria, al desiderio. In altre parole, il pasticcere contemporaneo non può ignorare che il gusto è esso stesso psiche; che ogni dolce veicola un messaggio, è un ponte tra il vissuto di chi lo assaggia e quello di chi lo crea. La nuova frontiera della pasticceria d’autore non è solo la decostruzione del cannolo o la rivisitazione del tiramisù, ma - può sembrare un eccesso - la ricostruzione emotiva di chi lo assaggia. E forse è qui che si giocherà il vero lusso: non nella scelta stilistica ma nella profondità dell’ascolto. Il desiderio non è mai per l’oggetto in sé, ma per la mancanza che rappresenta.
Oggi la vera rivoluzione in pasticceria potrebbe essere questa: riconoscere che ogni dolce parla. E che il gusto, prima ancora che un senso, è un linguaggio emotivo. Perché ci narra, in silenzio, di ciò che non abbiamo mai avuto. E che continuiamo ostinatamente a cercare.