29-11-2024

Che grande Italia al Basque Culinary Center

Una giornata sensazionale quella vissuta lo scorso 27 novembre nel Centro culinario d’avanguardia a San Sebastian, nei Paesi Baschi. La formazione Cuttaia, Tortora, Pascucci, Ceraudo e Marzullo/Malatacca incantano a colpi di pasta, riso e tartufo

Sei lezioni, una cena di gala, ma soprattutto una

Sei lezioni, una cena di gala, ma soprattutto una grande squadra, quella che ha rappresentato il nostro Paese nella seconda edizione dell'evento L'Italia al Basque lo scorso 27 novembre al Basque Culinary Center di San Sebastian, nei Paesi Baschi: da sinistra, Davide Marzullo, Sante Longo, Paolo Marchi, Ono Takayo, Caterina Ceraudo, alle sue spalle Christian Malatacca, Joxe Mari Aizega, direttore del Basque, Pino Cuttaia e Gianfranco Pascucci

Dopo due anni l’Italia torna al Basque Culinary Center di San Sebastian, nei Paesi Baschi, e lo fa con la missione di portare in uno dei centri più innovativi al mondo in materia gastronomica, la grandezza della cucina del nostro Buon Paese. Grande, perché non si arresta alla sola reinterpretazione di ricette codificate, e perché attraverso la visione dei suoi interpreti si è fatta portavoce di una maniera di vivere e non solo di mangiare, di un gusto raffinato e verace, innovativo e marcatamente identitario.

Un’intenzione chiara che guida la seconda edizione di L’Italia al Basque Culinary Center, un evento realizzato in collaborazione con Identità Golose con il prezioso supporto del Pastificio Felicetti; un contenitore per raccontare attraverso i grandi protagonisti della scena gastronomica nazionale, tre eccellenze del nostro Paese: pasta, riso e tartufo oggi.

«Siamo contenti di aver potuto accogliere per il secondo anno consecutivo questo grande appuntamento con la cucina italiana, ma soprattutto di aver potuto assistere non solo all’immenso lavoro dei protagonisti di sempre, ma anche di aver potuto imparare dalla voce di giovani che stanno mutando il modo di interpretare la cucina e la vita in un ristorante, introducendo nuovi modelli e altrettanti modi di pensare», commenta Joxe Mari Aizega, direttore del Basque Culinary Center.

Joxe Mari Aizega, direttore del Basque Culinary Center con Paolo Marchi

Joxe Mari Aizega, direttore del Basque Culinary Center con Paolo Marchi

Dopotutto, continua Paolo Marchi, ideatore e curatore di Identità Golose, «bisogna avere un’idea e non copiare. Questo concetto ha innescato la nascita del Congresso di Identità Milano, oggi il più antico dopo quelli spagnoli, di San Sebastian e Madrid: la possibilità di dare un palco a cuochi italiani e stranieri, ma soprattutto voce alle loro idee. Oggi, nelle maggiori rassegne internazionali, la presenza della cucina italiana non è così marcata: c’è molto Sud America, tanta Asia, tanto mondo ed è bellissimo. Ma più spazio viene concesso agli altri, meno ne resta per la cucina italiana. Eppure tutti amano la pasta, tutti adorano il risotto, ma nessuno si preoccupa di capire come si fanno». Poi continua, rivolgendosi ai giovani del Basque, una platea piena, attenta, curiosa, che così ammonisce: «Non avete alcun merito nell’essere giovani. Tutti lo siamo stati. La cosa importante è rimanere giovani nella testa».

Come giovane lo è, per esempio, Pino Cuttaia, chef del ristorante La Madia, due stelle Michelin a Licata (Agrigento), che introduce sul palco del Basque, sua maestà La pasta alla Norma.

 

PINO CUTTAIA del ristorante La Madia, Licata (Agrigento)

Pino Cuttaia sul palco dell'auditorium del Basque Culinary Center

Pino Cuttaia sul palco dell'auditorium del Basque Culinary Center

Un classico siciliano, eppure nuovo perché subentra l’estetica, modellata in uno stampo a mo’ di timballo; un’istituzione che conserva tutti i suoi ingredienti originari, lavorati attentamente, come si deve: pomodoro, melanzana, pasta, ricotta infornata e basilico. Un invito alla convivialità; un piatto che origina nel tempo in cui per la prima volta viene presentata a Catania l’opera del Bellini, La Norma, appunto, al termine della quale, uno spettatore goloso si fionda al ristorante e, in cerca di qualcosa di nuovo dalla cucina, si abbandona per la prima volta a questa pasta meravigliosa. Che giunge fino a oggi, a quella codificazione personale messa a punto da Pino Cuttaia. Questa è la sua Norma.

A cominciare dalla melanzana, che deve essere lucida e leggera, dal momento che il peso è un indicatore immediato della quantità di acqua trattenuta al suo interno. Viene tagliata a metà, quindi a fette, che vengono fritte in abbondante olio; l’uso di una quantità risicata, diversamente da quanto pensiamo, ne potenzia la capacità di assorbenza. Temperatura di frittura consigliata 160°C. Sarà il colore a suggerire il giusto punto di cottura, ma ancora di più il suo profumo.

Quindi, il pomodoro, un datterino, dal grado zuccherino elevato, che viene stufato e non cotto in un soffritto. In questa maniera l’olio non viene stressato, e il pomodoro conserva la sua naturale dolcezza cuocendo lentamente con solo un filo d’extravergine, aglio in camicia e basilico. «Leggerezza dei prodotti, ma anche conservazione del sapore autentico: ecco perché è così importante la scelta dell’ingrediente», commenta Pino.

La Norma codificata da Pino Cuttaia

La Norma codificata da Pino Cuttaia

C’è poi la pasta, che al Sud non è mai abbastanza; dopotutto, è sempre stata un ingrediente importante, che spesso sostituiva la carne, consumata anche più volte al giorno. In questa ricetta, viene scolata, asciugata, fino a diventare appiccicosa; una pasta molto al dente perché la cottura viene ultimata al forno, disposta in verticale così da lasciar filtrare il sugo come giù per un tubo. Dopotutto, la cucina è anche gioco. Infine, la ricotta: salata e passata al forno, “essiccata” per essere conservata, assimilando delle sottili note affumicate che ben si legano gli altri ingredienti. È la cucina della memoria, per stare insieme. Per mangiare bene, sempre.

 

ANDREA TORTORA del laboratorio di pasticceria AT Pâtissier, Chiari (Brescia)

Torna per la seconda volta al BCC, Andrea Tortora e lo fa con Ono Takayo, sua collaboratrice da sempre, brillante, gentile e con tanto cuore. Ex Niederkofler, prima in cucina e poi in pasticceria, Tortora è l’ideatore di AT Pâtissier, nonché uno dei massimi esponenti della pasticceria italiana. Torna, perché le pareti del Basque profumano ancora del suo Panettone, e nonostante questo giovane cremonese sia un pasticciere d’impostazione classica, è sempre stato in grado di vedere - e far vedere - le cose in maniera differente. Un uovo, un pandoro, una torta di mele.

È questa, dopotutto, l’unica via per innescare una rivoluzione: introdurre attraverso il pensiero, il cambiamento usando le proprie mani. Certo, occorrono stimoli quotidiani per porsi nuovi obiettivi e coltivare nuovi pensieri, “quando pur vedendo ciò che tutti hanno visto, inizi a pensare ciò che nessuno ha mai pensato”.

Il gesto è emozione: Andrea Tortora e il suo cannoncino alla crema a base di riso

Il gesto è emozione: Andrea Tortora e il suo cannoncino alla crema a base di riso

Occorre un pizzico di follia, ma anche sapere incorporare le contaminazioni, senza mai dimenticare la tradizione, il nucleo originario della rivoluzione stessa. Dopotutto, nel corso della sua lezione al Basque Culinary Center, Tortora ne introduce gradualmente la crucialità, a partire dal fondamento su cui poggia il suo lavoro, e quello della formidabile squadra che lo accompagna da anni: per aspera, ad astra, attraverso le asperità, alle stelle.

Difficoltà, come difficile è approcciare ingredienti inusuali in una preparazione ormai codificata in una certa maniera. Un cannoncino alla crema, per esempio. Una pasta made in Piemonte, pensata per una grammatura di circa 12-15 grammi a porzione, così tipica nei cabaret italiani degli anni ‘70/’80, e ben radicata nella memoria. È qualcosa di noto, di riconoscibile che, però Tortora stravolge nella materia, mettendo al centro l’uso del riso. Riso dentro, e riso fuori. Crema e sfoglia. La contaminazione, in questo caso, consiste nell’uso di una varietà glutinosa giapponese che deve asciugare tantissimo prima di essere utilizzata per il cannoncino, oltre che essere lavato accuratamente e sbattuto, come la tradizione nipponica suggerisce (al punto che esistono dei veri e propri maestri del lavaggio del riso, la cui preparazione richiede almeno un decennio, ndr). E la crema? Nella sua morbidezza, c’è il ricordo di quel dannato riso al latte preparato dalla nonna la domenica in campagna: un fine pasto né dolce, né salato, ma che riempiva la pancia accontentando meno il palato. Ecco, questo ricordo è la crema stessa, un riso al latte. In parte frullato, in parte lasciato intatto per conservare la testura originale. «Oggi è difficile pensare a un’invenzione, ed è per questo motivo che rivoluzionare diventa cruciale. Eppure c’è qualcosa che vale più di qualsiasi invenzione, più di qualsiasi rivoluzione, ed è il tempo che dedichiamo alle persone. Il vero lusso. Come il gesto di porgere un cannoncino appena farcito, l’attesa di riceverlo per mezzo delle mani, un’emozione che si rinnova» conclude Andrea.

 

 

GIANFRANCO PASCUCCI del ristorante Pascucci al Porticciolo, Fiumicino (Roma)

Fiumicino non è solo il maggiore aeroporto di Roma, un dettaglio quasi insignificante se consideriamo ciò che vive a distanza di pochi chilometri dai suoi confini. Inizi a sentire il profumo del mare, nascosto, eppure nemmeno così lontano perché la sola distanza a separarlo dallo sguardo è una fitta vegetazione: il bosco, i lecci e lo stagno, il mirto e la salvia, farfalle, tartarughe e persino i daini. Nell’oasi WWF di Macchiagrande, a Fiumicino, fatichi a pensare di trovarti in quell’esatto punto geografico.

È questo l’habitat più caro allo chef del ristorante Pascucci al Porticciolo, che ha trascorso l’intera sua vita a stretto contatto col mare, a cui dedica la sua cucina. Non di pesce, quindi. Perché non basta cuocere un branzino alla brace, un’impepata di cozze o un frittino misto; recano piacere immediato, soddisfano il palato, ma tutto si esaurisce nello spazio di un assaggio. Diversamente, cucinare il mare presuppone l’integrazione dell’emozione che provi nel viverlo. E quell’emozione diviene il gancio diretto alla memoria dell’ospite. Fino a farsi veicolo diretto di messaggi forti, incisivi perché legati alla sopravvivenza stessa delle acque locali.

Gianfranco Pascucci e il suo Mare di Plastica in preparazione: la seppia (il corpo) con torrone di seppia e cacao

Gianfranco Pascucci e il suo Mare di Plastica in preparazione: la seppia (il corpo) con torrone di seppia e cacao

Un piatto, per esempio, può farsi portavoce della problematica dei rifiuti lasciati in spiaggia, della quantità di plastica che i pescatori ritrovano in mare. Sono i primi ad attivarsi per contrastare questo dramma, ricevendo il supporto della comunità, incluso Gianfranco che ne offre un’interpretazione visiva, ma soprattutto gustativa, unica al suo Porticciolo. Una sferzata di mare intenso, senza filtri; una concentrazione di iodio che assimila note tostate, ma anche acide, di caffè e si sposa alla consistenza identitaria della seppia, e alla pasta nel Mare di plastica.

Una pasta al nero che, diversamente da tanti piatti a base di pesce, non è mai stata particolarmente di moda, ma che al contempo non passa mai di moda. È la pasta di quanti amano il mare e sebbene studiarla abbia richiesto alla squadra del Porticciolo circa un anno di tempo, il risultato finale è a dir poco straordinario. Innanzitutto perché ogni parte della seppia, senza alcuna forma di scarto, viene lavorata per ottenere testure inattese: dal corpo, per esempio, Pascucci ottiene un torrone. Essendo che la carne della seppia è ricca di albumina, marinandola con dello zucchero e una piccola percentuale di sale, asciugandola con 3 giorni di ventilazione, si ottiene questa pasta dolce e profumata, dalla consistenza fondente e appena callosa, arricchita da mandorla di Maccarese, mandarino e miel. Gli scarti, invece, diventano un caffè di seppia, un’estrazione con cipolle tostate, pelle, fegato, testa che stufano per ore con un’aggiunta di brodo vegetale semplice: si crea un infuso che parte dolce, finisce amaro, decisamente umami, molto iodato. E infine, la seppia che, dopo essere stata bollita, si frulla, si pacossa e diviene un’emulsione che sembra burro. Mentre il nero non viene aggiunto in cottura, ma solo alla fine per conservare intatta la sua nota iodata decisa; riveste la pasta che ha già assorbito il mare dell’infuso, la grassezza del burro, mentre in cima, come un corpo vivo, un ovulato si fa plastica. Cucina e territorio. Cucina è territorio.

 

 

ANA CLAIRE VENEGAS di Appennino Food Group, Savigno (Bologna)

La storia di Appennino Food Group, comincia quando Luigi Dattilo, suo fondatore, ancora bambino, aveva sviluppato una sensibilità unica verso piante e animali prendendosene cura quotidianamente. Non si esaurisce negli anni, ma cresce fino al momento in cui, all’età di 18 anni, invece di puntare su un’auto come tanti suoi coetanei, Luigi chiede in dono al suo papà un lagotto romagnolo, un cane da tartufo. È questo il principio di un percorso che lo conduce fino a oggi, alla sua azienda radicata in Valsamoggia, luogo d’elezione per il tartufo bianco, zona strategica di impareggiabile bellezza, di tradizione e di tecnologia all’avanguardia, ormai nota anche oltre confine perché sede di una materia prima di qualità.

Ana Claire Venegas, direttore commerciale Europa e uno strepitoso tartufo bianco

Ana Claire Venegas, direttore commerciale Europa e uno strepitoso tartufo bianco

Se ne fa portavoce Ana Claire Venegas, direttore commerciale Europa, che porta ai ragazzi del Basque Culinary Center una vera e propria masterclass sul fungo ipogeo, di cui è ricco il territorio italiano e in particolare l’Appennino, baciato da nord a sud da condizioni climatiche ideali per lo sviluppo del tartufo. Che accade in maniera del tutto naturale, tanto da divenire nel tempo, una vera e propria tradizione, e soprattutto Patrimonio culturale immateriale UNESCO. Perché il tartufo non è solo un ingrediente delizioso, o un’attività economica rilevante; il tartufo è soprattutto tradizione, la storia di uomini e donne che pur di proteggere le loro tartufaie, si muovevano di notte, vestiti da cacciatori, così da depistare quanti cercavano di accaparrarsi questi gioielli della terra. Che, invece, in Paesi come la Spagna - dove il consumo è molto alto, ben diffuso - vengono coltivati o, pensando alla Francia, ci teniamo a una varietà disponibile piuttosto limitata rispetto al patrimonio italiano. 5 sono le categorie principalmente commercializzate: il tartufo bianco pregiato (tuber magnatum pico), il tartufo nero dolce (melanosporum), lo scorzone (o tartufo d’estate), l’uncinato e il bianchetto. Ciascuno con una sua identità, che si costruisce per mezzo di quel rapporto simbiotico con il contesto in cui il tartufo nasce, tra le piante madri ad alto fusto e quelle comari intorno. Conoscerne la consistenza, il colore, il profumo e la struttura anatomica, conoscerne la stagionalità, l’impatto al naso e, quindi, sul palato, è cultura, ma anche strumenti indispensabili per portare in tavola eccellenza e, in ultimo, puro piacere a tavola, dalla forma più pura, al naturale, ma anche attraverso lavorazioni accurate di cui Appennino Food Group è orgoglioso promotore: dai carpacci di tartufo al burro aromatizzato, fino a uno degli ultimi prodotti, una maionese completamente vegana al tartufo, perfetta con delle patatine fritte, divertente, così da poter interpretare anche un ingrediente così pregiato in chiave pop. Purché non venga mai oscurata la chiara naturalezza della materia prima.

 

 

CATERINA CERAUDO del ristorante Dattilo, Strongoli (Crotone)

In Italia, quando si parla di primi freddi siamo immediatamente portati a pensare a un classico riso all’insalata, o al massimo a formati di pasta corti, conditi con quel che avanza in credenza. Un piatto fresco, rapido economico e, nella gran parte dei casi, senza criterio. Ma c’è chi ragiona sulla pasta fredda con ampio respiro, per veicolare senza interferenze il profumo della sua terra, l’orto di famiglia, culla della sua passione. Lì dove affondano le sue radici così forti e stabili. Caterina Ceraudo, chef del ristorante Dattilo a Strongoli (Crotone) arriva al Basque Culinary Center con uno Spaghettone al pomodoro, capperi e olive. Niente di più: essenza italiana. Lo sceglie perché attraverso questo piatto a parlare è l’ingrediente e con esso la terra in cui è cresciuto. Ma lo sceglie anche perché ciascuno di noi custodisce una sua personale memoria di questa pasta, e così, sin dal primo assaggio, innesca un combattimento sul palato, tra ciò che conosciamo e ciò che siamo invitati a scoprire attraverso l’assaggio.

Di pomodori Caterina ne usa 4, ciascuno per una sua caratteristica: il datterino, molto dolce, il ciligieno dal timbro acido, il pizzutello, così generoso nella polpa e un pomodoro grande, da insalata, che è il Belmonte, con molta buccia (usato, per questo, in proporzione minore). Vengono cotti separatamente sottovuoto a 68° per circa 10 minuti con tantissime erbe aromatiche (il dragoncello, balsamico, l’origano e il basilico); il sacco, poi, viene riposto in acqua e ghiaccio e, una volta raffreddato il contenuto, si estrae tutto il pomodoro, lasciato filtrare un giorno e poi assemblato in un unico coulis. Una preparazione che avviene in estate, quando di pomodoro ce n’è in abbondanza, sebbene il cambiamento climatico stia mutando sensibilmente il periodo di raccolta che quest’anno, per esempio, si è protratto fino a ottobre.

Caterina Ceraudo e la sua pasta al pomodoro prima di essere raffreddata

Caterina Ceraudo e la sua pasta al pomodoro prima di essere raffreddata

C’è poi la Carolea, una cultivar tipica della Calabria, grande e rotonda: l’oliva viene incisa, lasciata in ammollo per circa una settimana cambiando acqua 2 volte al giorno, e scaricando così la parte amaricante. Si scolano le olive e aggiunto il 3% di sale, si lasciano asciugare davanti al camino, come accadeva nel passato, o semplicemente in forno. Quindi, denocciolate, vengono mantecate come un gelato al pacojet in modo tale da preservare la grassezza, senza lasciare surriscaldare gli oli e così disperderli. Del cappero, invece, si utilizzano solo le foglie in conserva; d’altronde parliamo di una specie infestante in Calabria, onnipresente lungo le strade provinciali, praticamente ovunque: le foglie, quindi, vengono bollite in acqua acidificata, asciugate e poi conservate sottolio.

E arriviamo alla pasta, fredda: si procede come una pasta tradizionale, rispettando il tempo di cottura indicato sulla confezione, nel caso di Caterina, 9 minuti. Ulteriori 3, invece, seguiranno nel coulis di pomodoro. Dopodiché, la pasta viene raffreddata espressa, immediatamente: finisce in una bowl posizionata a sua volta all’interno di un contenitore più grande ricolmo di ghiaccio. La pasta viene smossa con movimenti circolari a contatto indiretto col freddo; tecnicamente, nel momento in cui inizia il raffreddamento, la pasta torna indietro al suo grado di cottura ottimale, un al dente ben definito, rilasciando ulteriore amido e, così, una piacevolissima cremosità, che veste lo spaghetto tanto che non necessita di altro condimento, se non un filo d’olio, cultivar Fidelia dalla marcata nota di mandorla. Gelato di oliva alla base, foglie di cappero in cima: questa è l’estate in un piatto. Sempre.

 

 

DAVIDE MARZULLO E CHRISTIAN MALATACCA di Trattoria Contemporanea, Lomazzo (Como)

Quella di Davide Marzullo e Christian Malatacca, insieme nella cucina di Trattoria Contemporanea, a Lomazzo, è stato tra i diversi interventi del giorno, quello che sicuramente ci ha portati più lontani dal concetto di classicità e tradizione. Questo, non solo per la natura del piatto presentato, un risotto, settentrionale fino al midollo eppure nella loro interpretazione, amplificatore sonoro del Mediterraneo. Ma soprattutto perché dal racconto di Davide e Christian emerge una nuova maniera di concepire il ristorante e propriamente il ruolo dello chef.

A sinistra, Christian Malatacca e a destra Davide Marzullo di Trattoria Contemporanea, una stella Michelin a Lomazzo (Como), la giovanissima Italia al Basque

A sinistra, Christian Malatacca e a destra Davide Marzullo di Trattoria Contemporanea, una stella Michelin a Lomazzo (Como), la giovanissima Italia al Basque

Che non è più solitario, arroccato nella sua arroganza, nutrito dall’ego, posto a ragionare come singolo e, in quanto tale, preposto a ingoiare meriti, ma anche rospi in piena solitudine. Trattoria Contemporanea è innanzitutto il suo essere collettivo, la dimensione dello scegliere insieme, lavorare insieme e soprattutto crescere insieme. Fare squadra diventa un’opportunità, il nucleo in cui si concentrano punti di vista differenti contribuendo a quell’armonia così palpabile dall’ospite.  Insieme si condividono il bello e il cattivo tempo, e quel masso pesante ben ripartito, diventa improvvisamente più leggero.

Anche in questo Trattoria è profondamente contemporanea: sbirciando nl menu, faticheremo a scovare ostriche, astici e altri ingredienti sontuosi. Abbonda, invece, il quinto quarto, un arcobaleno di cervella, mammelle, trippa, animelle; una cucina ad alta intensità, con tanto gusto e un uso consapevole della materia. Abituando a un nuovo modo di vivere la tavola: parola d’ordine, leggerezza. Contemporanea la trattoria, contemporanee le idee, quindi, anche nel modo di interpretare un risotto, combinando ingredienti che difficilmente cuciresti insieme: latte di capra, cappero e liquirizia.

Risotto al latte di capra, cappero e liquirizia

Risotto al latte di capra, cappero e liquirizia

Base di partenza, il latte di capra di Casale Roccolo, una piccola azienda del comasco, intenso, deciso, naturale: se ne ricava una riduzione portata al 50% rispetto alla quantità iniziale. Dunque, il riso, tostato con olio e niente più per trattenerne il profumo; viene sfumato con del vino bianco che deve evaporare completamente prima di iniziare a bagnare i chicchi con del brodo vegetale. Solo a cottura ormai avanzata, si unisce il latte di capra ridotto, che apporta una cremosità importante, ben oltre “l’onda”, che vuole il riso più rilassato: imprime sentori caramellati come un latte condensato, ricalcando la grassezza di un midollo, condimento originario del classico risotto. Una ricchezza potenziata dal burro, parmigiano, pepe e anche da un olio all’aglio. Un ultimo filo per dare lucentezza e, a chiudere, soia. Attenzione: mangiare senza mischiare, senza timori di un boccone eccessivamente grasso, perché subentrano la dolcezza balsamica della liquirizia e il cappero, sapido, mediterraneo, in polvere, in grado di domare persino il timbro animale. E se grasso lo fosse un po’, poco importa: «A noi piace perché è buono», chiude Davide Marzullo.

 

E ora alcuni scatti dalla splendida cena di gala andata in scena proprio tra le mura del Basque Culinary Center con un menu esclusivo firmato dagli chef Pino Cuttaia, Caterina Ceraudo, Gianfranco Pascucci, Davide Marzullo e Christian Malatacca e tutta la parte dolce a cura di Andrea Tortora, panettone e pandoro compresi. Al calice, invece, i vini Ca' del Bosco, Cantina Ceraudo e Ceretto.

Gli chef presentano i loro piatti: parola a Pino Cuttaia

Gli chef presentano i loro piatti: parola a Pino Cuttaia

L'Italia cucina: da sinistra, Pino Cuttaia, Gianfranco Pascucci, Davide Marzullo, Christian Malatacca e al centro, in prima fila,  Caterina Ceraudo

L'Italia cucina: da sinistra, Pino Cuttaia, Gianfranco Pascucci, Davide Marzullo, Christian Malatacca e al centro, in prima fila,  Caterina Ceraudo

I vini della serata: Franciacorta Vintage Collection Extra Brut 2019 Ca' del Bosco, Ceraduo Grisara IGT Calabria e il grande Piemonte di Ceretto con un Barolo 2020

I vini della serata: Franciacorta Vintage Collection Extra Brut 2019 Ca' del Bosco, Ceraduo Grisara IGT Calabria e il grande Piemonte di Ceretto con un Barolo 2020

Gli Spaghetti al nero di seppia di Pino Cuttaia: la seppia stessa sviluppa il glutine, raggiungendo in questo formato, una consistenza molto simile al ramen. Lo iodio è intenso, ma poi si ammorbidisce lentamente, mentre sottili veli di seppia danno grassezza come un lardo

Gli Spaghetti al nero di seppia di Pino Cuttaia: la seppia stessa sviluppa il glutine, raggiungendo in questo formato, una consistenza molto simile al ramen. Lo iodio è intenso, ma poi si ammorbidisce lentamente, mentre sottili veli di seppia danno grassezza come un lardo

Lo Spaghettone quadrato freddo di Caterina Ceraudo ai frutti di mare: masticazione interessante, come lo è la temperatura di questo piatto, che rallenta e invita alla riflessione; il freddo potenzia la concentrazione della terra, così vicina al mare, è il profumo dell'orto, del pomodoro, mentre i molluschi introducono uno spaghetto allo scoglio 2.0

Lo Spaghettone quadrato freddo di Caterina Ceraudo ai frutti di mare: masticazione interessante, come lo è la temperatura di questo piatto, che rallenta e invita alla riflessione; il freddo potenzia la concentrazione della terra, così vicina al mare, è il profumo dell'orto, del pomodoro, mentre i molluschi introducono uno spaghetto allo scoglio 2.0

I Fusilloni del Mare di Plastica di Gianfranco Pascucci in preparazione...

I Fusilloni del Mare di Plastica di Gianfranco Pascucci in preparazione...

... e nel piatto

... e nel piatto

Pre-dessert: il Tortello di zucca mantovano, in versione caramella, un capolavoro di Andrea Tortora. Dolcezza speziata in un cuore a base zucca, e sul fondo, polenta bianca aromatizzata alla vaniglia

Pre-dessert: il Tortello di zucca mantovano, in versione caramella, un capolavoro di Andrea Tortora. Dolcezza speziata in un cuore a base zucca, e sul fondo, polenta bianca aromatizzata alla vaniglia

Da bambino, Andrea Tortora non amava il Riso al latte, incastrato com'era in quel limbo tra dolce e salato, ben lontano quindi dalla carezza di questa versione che propone e firma a chiusura di una cena perfetta: prezioso con la vaniglia intensa, una cremosità generosa, alla quale non resta che arrendersi e, in cima, tartufo bianco Appennino Food Group

Da bambino, Andrea Tortora non amava il Riso al latte, incastrato com'era in quel limbo tra dolce e salato, ben lontano quindi dalla carezza di questa versione che propone e firma a chiusura di una cena perfetta: prezioso con la vaniglia intensa, una cremosità generosa, alla quale non resta che arrendersi e, in cima, tartufo bianco Appennino Food Group

Il Pandoro di Andrea Tortora

Il Pandoro di Andrea Tortora


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Recensioni, segnalazioni e tendenze dai quattro angoli del pianeta, firmate da tutti gli autori legati a Identità Golose

Marialuisa Iannuzzi

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Marialuisa Iannuzzi

Classe 1991. Irpina. Si laurea in Lingue e poi in Studi Internazionali, ma segue il cuore e nella New Forest (Regno Unito) nasce il suo amore per l'hospitality. Quello per il cibo era acceso da sempre.  Dopo aver curato l'accoglienza di Identità Golose Milano, oggi è narratrice di sapori per Identità Golose. Isa viaggia, assaggia. Tiene vive le sue sensazioni attraverso le parole.

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