03-04-2023
Da sinistra gli chef che hanno partecipato all'evento Talks about Food and Future il 27 e 28 marzo scorsi presso la pizzeria Denis di Denis Lovatel, a Milano: Amanda Cohen, Blanca Del Noval, Jp McMahon, Denis Lovatel, Davide Oldani, Matt Orlando - credititi fotografici Richard Gruica
Gli scorsi 27 e 28 marzo, la pizzeria Denis di Denis Lovatel, a Milano, ha ospitato un laboratorio interattivo, una grande tavola rotonda attorno alla quale ricercare soluzioni atte a potenziare concretamente la sostenibilità nel mondo della ristorazione, attivando riflessioni corali sui tre pilastri basilari della gestione di qualsiasi attività: costi alimentari, costi della manodopera e community building, ossia l’opportunità di costruire una comunità attorno al (oltre che all’interno del) ristorante.
Parliamo della due giorni di Talks about Food and Future, che nasce dalla sinergia di Food on the Edge, il simposio irlandese sul cibo che si ripropone a cadenza annuale a Galway (prossima edizione 16-17 ottobre) e il cui portavoce è lo chef del ristorante Aniar, JP McMahon; Terroir Hospitality, l’organizzazione che fornisce a chef, produttori e ristoratori una piattaforma comune per connettersi e interagire tra loro, assieme all’agenzia di consulenza Collectibus e al pizzaiolo Denis Lovatel, che apre le porte di casa, forte dell’intenzionalità di rendere la sua pizzeria un luogo tutt’altro che statico, bensì estremamente stimolante per tutti i suoi collaboratori, almeno quanto per gli ospiti è sorprendente la sua pizza.
Denis Lovatel
Denis: in costante evoluzione, in perpetua ricerca di una storia da raccontare attraverso l’unicità di un prodotto, impegnato a sostituire le proteine animali delle sue pizze con proteine vegetali, pur sempre attingendo da una piccola affidabile filiera. I prodotti reperiti, quindi, vengono lavorati in un laboratorio, un micro-hub, che è parte integrante di questa catena virtuosa, contribuendo alla minimizzazione generale dei costi. A favore di un immenso beneficio: risparmiare lavoro e tempo a chi prende servizio in pizzeria che, quindi, troverà gran parte delle preparazioni pronte all’uso.
Pratiche minime, ma estremamente utili al benessere della squadra e all’apprezzamento complessivo del prodotto; idee che trasportano la pizza dal livello di fast food a quello di smart food: «Le nostre creazioni richiedono tempo e pensiero, ed entrambi devono essere ribaditi affinché la pizza non si limiti ad offrire un’esperienza fisica, o di piacere, o di gusto, di convivialità, ma può effettivamente essere un veicolo comunicativo».
Nel corso della seconda giornata di Talks about Food and Future, la pizza di Denis Lovatel è diventata la base di ricette e topping pensati dagli chef ospiti: in foto la pizza Buccia Vegetale Caramellata di Matt Orlando
La pizza Ostriche, Trota e Alghe di Jp McMahon
Non è un caso, allora, che sia stata proprio la Pizzeria di montagna in Via Statuto 16, a Milano, a trasformarsi in un incubatore di dialoghi e fare da sfondo al workshop che prospetta un nuovo futuro per il mondo della ristorazione.
Dunque ragioniamo: il punto di partenza è sempre il cibo, ma poi il nostro sguardo si allontana segnando confini sempre più ampi, il confronto si dipana accogliendo temi trasversali e attuali - l’inflazione, il reperimento della materia prima, la crisi del personale, il valore sociale del cibo. Ebbene, il piatto diventa un ricordo lontano e resta “the bigger picture”, quell’immensa fotografia che è il nostro presente, il tempo in cui scriviamo. Sorge allora la domanda: e se tutti gli interrogativi, i nostri ideali, alla fine, non facessero altro che far perdere di vista il cuore della questione, ossia portare in tavola una buona cucina?
Lo chef Matt Orlando, della Endless Food Company ed ex proprietario del ristorante Amass a Copenaghen
È la provocazione che solleva lo chef californiano Matt Orlando della Endless Food Company, ex patron e chef di Amass a Copenaghen, citando il punto di vista (senza fare nomi, ndr) di uno degli chef per il quale ha lavorato in passato secondo cui i giovani, a furia di pensare, hanno smesso di cucinare. Dovrebbero, secondo l’innominato, tenere a bada i loro ideali e tornare ai fornelli, a quella visione prettamente materialistica della cucina. Senza pensare - e questo lo aggiungiamo noi – che il pensiero origina un’applicazione pratica dell’intelligenza, che a sua volta facilita pratiche anti-spreco in un ristorante. Questo perché il confronto con la materia implica che niente di essa venga sprecata, e in tavola giunge una cucina rigenerata, pensata, fondata su un uso integrale dell’ingrediente, in grado di contenere i costi, senza perdere di vista il gusto e – in ultima analisi, di rendere le idee, sostanza.
Ma come avviare il cambiamento, come smuovere i vecchi paradigmi? La parola chiave è “consapevolezza” – di cui il ristorante diventa un amplificatore- , schiudersi al nuovo, «individuando il problema per apportare soluzioni», aggiunge Matt Orlando.
Il sollevarsi di simili osservazioni avviene precisamente in fase post-pandemica, in quel frangente che ha determinato a livello globale l’allontanamento di tanta forza lavoro da questo settore, e che ha perciò riscritto il modello imprenditoriale di molti ristoranti. Come accade ad Amanda Cohen, chef canadese dell’insegna newyorkese, Dirt Candy dove decide di eliminare il sistema delle mance (così da superare la differenziazione di trattamento tra lo staff di sala e quello di cucina), abbassare il food cost, a favore degli stipendi che invece migliorano; aumentare il costo del menu, una scelta che la clientela accetta come se nulla fosse e infatti continua a riempire il locale, forse anche più di prima.
Denis Lovatel e Amanda Cohen
Puntando su benefici che migliorano concretamente la qualità della vita del personale (definire, per esempio, una timeline che preveda step di crescita del personale e relativi bonus per ogni livello raggiunto) viene a crearsi una prima forma di comunità che si basa sulla fiducia a partire da chi lavora al ristorante. Un piccolo universo, in cui il leader vince quando è in grado di comprendere le esigenze di chi lo accompagna nel lavoro quotidiano valorizzando le abilità altrui, promuovendo la formazione delle risorse, coinvolgendo l’intera squadra in attività di gruppo.
Ma il ristorante è anche un punto fermo attorno al quale ruotano numerosi interlocutori che lì si incontrano; la rete si estende e lo scambio, fertile, ha inizio. Ragion per cui la ricercatrice del Basque Culinary Center, Blanca De Noval, fatica ad accettare una generica definizione di comunità, quale gruppo di persone che vivono nello stesso luogo o che hanno caratteristiche particolari in comune, preferendo ispirarsi alla descrizione di una comunità vegetale, che aggiunge l’elemento chiave della ricerca di una relazione, per cui le piante – e ci si auspica gli uomini - non solo condividono un medesimo ambiente (proprio come le persone), ma interagiscono anche tra di loro. Ed è proprio qui il vero valore della comunità.
Pensieri, ideali, visioni e un futuro per mettere in campo le idee più lungimiranti, senza mai tradire la propria identità, «la sola – come sottolinea lo chef Davide Oldani, che ha partecipato alla seconda parte dell’evento – «che ci consente di non seguire le mode e di fare del cibo uno strumento che attrae». Come? Nel suo caso attraverso la cucina pop – intellegibile, solida, radicata nella nostra coscienza ma elastica abbastanza da adattarsi alla contemporaneità. «Dopotutto, noi chef e uomini di questa generazione – aggiunge Oldani - siamo abbastanza fortunati: viviamo in quel Paese che i nostri nonni hanno costituito; che i nostri genitori hanno ricostruito e a noi, ora, tocca “solo” proteggere tutto ciò che è stato già compiuto in passato».
Da sinistra, lo chef irlandese Jp McMahon, direttore e fondatore del simposio irlandese Food on the Edge (che si svolge annualmente a Galway), Davide Oldani, chef del ristorante D'O, 2 stelle Michelin a Cornaredo (Milano) e Denis Lovatel
Il domani, invece, continuerà a essere l’oggetto d’investigazione preferito di Food on the Edge che quest’anno, ci svela JP McMahon, avrà come filo conduttore lo story-telling, la narrazione. Lo story-telling e le persone: «C’è un sacco di cibo sostenibile prodotto in ristoranti che, invece, sostenibili non lo sono affatto. Per cambiare le cose, dovremmo far sì che lo staff di sala e quello di cucina si avvicinino, back e front of the house, per farne una cosa sola. Per migliorare questo ciclo, serve quasi a nulla circondarsi di persone o cibo sostenibili se poi tutto il resto, intorno, è sul punto di crollare. Ecco perché venire a capo con delle soluzioni e far sì che queste vengano diffuse, è una questione imprescindibile per Food on the Edge ed è qualcosa che non potrebbe mai accadere senza il contributo attivo delle persone e della loro narrazione: basti pensare al motivo per cui sono qui a Milano. Ho incontrato Denis tanti anni fa per parlare insieme di pizza e da allora siamo sempre rimasti in contatto, condividendo i nostri pensieri. Sì, Food on the Edge cresce attraverso le persone che incontra».
Qui di seguito vi riportiamo i risultati e le soluzioni individuate nel corso delle tavole rotonde a cui hanno partecipato chef, giornalisti ed esperti, in merito alle tre diverse tematiche a cui si accennava, quindi, costi alimentari, costi della manodopera e community building.
La grande squadra a lavoro nel corso della prima delle due giornate a Talks about Food and Future
FOOD COST
Alcuni dei partecipanti nel corso della tavola rotonda
«Per risolvere il problema legato al food cost - racconta Olga Bodowska - si possono iniziare ad effettuare piccoli gesti quotidiani, come l’utilizzo di prodotti locali (per evitare l’inquinamento causato dai viaggi intercontinentali) o l’implementazione di servizi che possano salvare il cibo invenduto di ristoranti e locali alimentari. Il focus del nostro elaborato - prosegue la giornalista e ricercatrice polacca - è far sì che i ristoratori possano lavorare in collaborazione, creando un hub comune per diminuire il più possibile la percentuale di cibo sprecato».
COSTO DELLA MANODOPERA «La domanda attorno alla quale è stata sviluppata la nostra tavola rotonda è stata come fidelizzare i lavoratori. Ci siamo cosi focalizzati su punti chiave quali la definizione di un business model, i salari dei dipendenti, la conoscenza dei benefit, la formazione dello staff e, infine, il supporto da parte delle istituzioni - a partire dall’Italia che sta lavorando per istituire una giornata a tutela dei ristoranti e dei ristoratori». Marialuisa Iannuzzi
COMMUNITY BUILDING
Il risultato del brainstorming moderato da Alessandra Savina, ricercatrice dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo - ha dimostrato come gli stakeholder (a partire dai produttori, chef e ristoratori, staff e cliente finale) debbano comunicare tra loro, al fine di creare una comunità. «Per poter dar vita ad una comunità - racconta Paul Moinea, fondatore di I.D.E.A.L. - è necessario diffondere consapevolezza tra le diverse parti coinvolte ed educare le nuove generazioni ad un’alimentazione sana, equilibrata e rispettosa dell’ambiente».
Recensioni, segnalazioni e tendenze dai quattro angoli del pianeta, firmate da tutti gli autori legati a Identità Golose
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Classe 1991. Irpina. Si laurea in Lingue e poi in Studi Internazionali, ma segue il cuore e nella New Forest (Regno Unito) nasce il suo amore per l'hospitality. Quello per il cibo era acceso da sempre. Dopo aver curato l'accoglienza di Identità Golose Milano, oggi è narratrice di sapori per Identità Golose. Isa viaggia, assaggia. Tiene vive le sue sensazioni attraverso le parole.
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