03-04-2021
Leila Salimbeni, food writer dell'anno per la Guida ai ristoranti di Identità Golose 2021
«Di adozione bolognese, classe 1984, una laurea alla Sapienza di Roma e una in Semiotica a Bologna (con una tesi su Massimo Bottura), coordinatore editoriale di Spirito diVino e colonna di Passione Gourmet, è premiata per i punti d’osservazione originali che assume, arricchiti da costruzioni narrative brillanti». È la motivazione ufficiale che accompagna il premio di food writer dell'anno assegnato dalla Guida di Identità Golose 2021. Abbiamo chiesto alla premiata di raccontarsi.
Debbo premettere che sto per scrivere qualcosa di nuovo. Pur avendo prodotto, da quando ho incominciato a fare questo mestiere nel novembre del 2011, circa 3.300 scritti - calcolando una media di 4.000 battute ciascuno ho premuto sulla tastiera circa 13 milioni e 200mila volte, spazi inclusi - nessuno di questi testi è stato mai concepito per parlare direttamente della sottoscritta. Ho sempre parlato, più volentieri, del mio mondo interiore, sempre indirettamente e in una maniera che non è mai coincisa con la parte più privata della mia esistenza, di cui sono gelosissima. Da qualche parte, però, debbo incominciare, e lo faccio con un primo ricordo di mia madre la quale, pare, durante i pranzi di famiglia doveva vigilare sul bicchiere di mio nonno - l'unico a bere vino - perché poteva capitare che, anche se avevo solo 3 anni, lo trangugiassi di nascosto. Chiaramente, non posso dire nulla su questa prima parte della mia vita se non che, evidentemente, il vino mi piaceva, così come mi piacevano il salmone, il burro, le acciughe, i ricci di mare, i brodi e i fondi di cottura. Allo stesso tempo, sapevo esattamente anche cosa non mi piaceva, e non era quasi mai un sapore ma, piuttosto, una consistenza: una cosa, questa, che mi è stata chiara - e molto utile - sin dai primi momenti di autocoscienza. Ho sempre avuto gusti molto definiti: non solo in materia gusto-olfattiva ma su tutto lo scibile umano. Salvo rarissime eccezioni, perché sono pur sempre nata negli anni Ottanta, non ho mai ascoltato intenzionalmente musica commerciale e non tanto per via di quello che taluni ritengono essere un approccio elitista all'esistenza - cosa di cui solo recentemente ho imparato a bearmi - ma per un fatto di corrispondenza, appunto, col mio mondo interiore, da sempre devoto a un unico, precisissimo, imperativo di bellezza. Ancora non capisco, per dire, come si faccia a considerarsi edotti in fatto di vino, e dunque arbitri in materia di gusto, se poi si ascolta Beyoncé. Ecco è un'incongruenza, questa, di cui non mi do pace, e ciò non significa che io non professi l'eclettismo visto che, in fatto di musica, salto disinvoltamente da Vitalic a Enrico Caruso, passando per i Dead Can Dance, Herbie Hancock e Arturo Benedetti Michelangeli, solo per dirne alcuni, ma questa è un'altra storia.
Con Paolo Marchi nel giorno della premiazione
Grazie alla semiotica fui presto irretita dalla tentazione, mai abbandonata, di ridurre tutto a "testo", e così presi ad applicarla a ogni elemento del quotidiano, compresa la cucina che, allora, era il 2010, non godeva affatto dell'attenzione di cui invece prospera oggi. Feci così un'indagine e scoprii che, curiosamente, lo chef allora più interessante da un punto di vista semiotico era anche quello a me più prossimo: cominciai a frequentare l'Osteria Francescana e Massimo Bottura che, peraltro, ebbi l'ardire di nominare, a sua insaputa, mio correlatore nel percorso di stesura della tesi di laurea. Cominciò così uno dei periodi più vivaci della mia esistenza. Una volta al mese, sempre da sola e sempre a pranzo, mi sedevo a uno dei tavoli della Francescana dove Beppe Palmieri mi rifilava libri e versava pozioni in egual misura, mentre dalla cucina uscivano piatti che, talvolta, non entravano nemmeno in menu ma che mi permettevano di entrare nel vivo del processo creativo del suo fautore. Una volta tornata a casa, ne scrivevo. Su quei pranzi solitari ma affollatissimi, e sugli scritti che ne seguirono, fu incentrato tutto il periodo post-laurea: un periodo matto e sregolatissimo in cui lo studio si miscidava con incursioni profondissime nel mondo dei sensi, compreso quello del vino al quale dedicavo, e dilapidavo, quasi tutto quello che avevo.
Poi, grazie a Luca Govoni, conobbi Andrea Grignaffini. Avevo studiato sui testi di suo fratello Giorgio e, complice il suo approccio, squisitamente maieutico, incominciai a collaborarvi immediatamente. Era il 2011 e, allora, aveva bisogno di qualcuno che seguisse le rubriche di Spirito diVino - Perlage e Rossi & Co. - e che l'aiutasse a districarsi nello scibile dei progetti che da più parti, già all'epoca, lo reclamavano.
MAESTRO. Andrea Grignaffini
È questo il mondo a cui appartengo. Un mondo ancora eminentemente di carta: materiale che ha forgiato non solo la mia competenza ma anche quella sorta di riverenza - di cui vado fierissima - nei confronti di tutto quanto decido di mettere nero su bianco che è oggi del tutto inattuale, e di certo impopolare, rispetto al quotidiano siparietto di pressappochismo e volgarità che, dai social, è filtrato anche nel mondo vino che ne esce straniato, sfigurato, sopraffatto.
In questi dieci anni - che sono stati sì anni di viaggi e di degustazioni straordinarie ma anche anni di abnegazione e negoziazione costanti - non c'è stato un giorno in cui non abbia imparato qualcosa, soprattutto di me stessa. Ed è questo che, in buona sostanza, sento di dover dire a tutti coloro che intendono avvicinarsi a questo mondo: di coltivare la propria interiorità e di preservarla, senza mai barattarla con gli idoli della contemporaneità.
Recensioni, segnalazioni e tendenze dal Buonpaese, firmate da tutti gli autori legati a Identità Golose
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di adozione bolognese, classe 1984, una laurea alla Sapienza di Roma e una in Semiotica a Bologna è coordinatore editoriale di Spirito diVino e colonna di Passione Gourmet. Food writer dell'anno per la Guida di Identità Golose 2021
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