Il pane è migliore, organoletticamente parlando, se è anche buono dal punto di vista etico e sociale. Il pane buono e persino più buono è stato servito durante i sei mesi d’Identità Expo e viene dritto dritto dai cosiddetti cattivi, quelli che “vanno messi in carcere e buttiamo via la chiave”. Un’opinione legittima quanto sciocca, ma la nostra dissente anche solo su un punto: perlomeno non chiudete loro la serratura della porta che conduce al forno. Perché sanno ricavarvi fragranti delizie.
Questa storia ha inizio nel 2010 e a raccontarcela è Marco Ferrero, presidente della cooperativa Pausa Cafè. Che c’entrino arabica e robusta ve lo sintetizziamo però subito noi, facendo un passo indietro. Anno 2004, Ferrero si trova in Guatemala a seguire progetti di cooperazione. Ha un’idea, per la quale crea Pausa Cafè: crea in link diretto coi piccoli produttori guatemaltechi (il loro raccolto è garantito Slow Food) per un progetto allora pioneristico in Italia, la prima iniziativa di lavoro in carcere di questo tipo, una torrefazione nella casa circondariale di Torino; subito arrivano qualità e successo, tanto che oggi quei chicchi tostati sono commercializzati da Eataly, Vergnano e Coop in Italia, ma poi anche negli Stati Uniti e in Giappone.

Ribaldone, con il suo sous chef Domenico Schingaro, insieme a Ferrero e i detenuti che partecipano al progetto di panificazione curato da Pausa Cafè
Quando s’inizia a guardare un bel film, non si smette più di voler proseguire. Figuriamoci poi se si è protagonisti. Il fotogramma successivo vede dunque
Pausa Cafè espandersi, oggi è anche birrificio nel carcere di Saluzzo, ristorante al
Bistrò Pausa Cafè («Ma presto lì apriremo anche pizzeria e pasticceria») di Grugliasco, dove vengono impiegati rifugiati ed ex detenuti, per il necessario reinserimento sociale dei fine-pena. E poi il pane, due forni ad Alessandria e Cuneo. Con una stella polare: «La qualità è il principale indicatore della sostenibilità».
Per questo a Identità Expo abbiamo scelto il pane alessandrino, che giungeva da una delle due prigioni di Alessandria, quella di San Michele. Un’attività iniziata, appunto, nel 2010, anche se per vedere sfornare le prime pagnotte si è dovuto attendere altri due anni, perché l’arte della panificazione è delicata e complessa, e chi vi si dedica – attualmente 14 persone, delle quali 10 detenute – ha avuto bisogno di tempo per imparare.
La lezione è servita. Oggi i “cattivi” di Pausa Cafè sfornano settimanalmente 3.500 chili di ottimo pane, ma a volte la produzione, in periodi topici come durante Expo, ha toccato i 2.500 chili giornalieri. Due tipologie, entrambe artigianali: un “pane quotidiano”, bianco, e uno di segale. «E sempre all’insegna dell’eccellenza – spiega Ferrero – Lievito madre, forno a legna (acquistato a Barcellona, superficie di cottura di 20 mq, una delle più grandi in Italia, ndr), farine biologiche, lievitazione lenta di 18 ore. Così possiamo fornire un prodotto con una piacevole acidità e un aroma unico».

Una fase della lavorazione
Che a dirlo lui, responsabile del progetto, è scontato. Ma il “pane dal carcere” ha supporter prestigiosi, come
Carlo Cracco, che l’ha utilizzato nel suo locale in via Victor Hugo. Oppure
Andrea Ribaldone che, oltre ad averlo portato a Identità Expo del quale era executive chef, lo propone tuttora al suo
I Due Buoi di Alessandria.
Perché, Andrea? «Semplice: perché il pane è importante. Molto spesso nell’alta ristorazione vengono proposti panetti home made, approssimativi, troppo grassi, aromatizzati in mille modi diversi… Vanno bene magari come snack iniziale, ma hanno un problema di fondo: non sanno di buon pane!». Meglio comprarlo piuttosto dai fornitori giusti.
Gli chef intelligenti – annoveriamo Ribaldone tra questi – scelgono quindi pani come dio comanda. «A I Due Buoi ne proponiamo tre tipi. Il primo lo realizza il nostro pasticcere e panificatore Carlo Scanferla: multicereale, con lievito madre. Poi un secondo è invece di un maestro, Eugenio Pol: integrale, speziato, sfizioso…». Ma l’archetipico, bianco e profumato, è quello realizzato dai ragazzi del carcere San Michele.

Pagnotte calde al carcere di Alessandria
Di nuovo: perché,
Andrea? «Innanzitutto perché il progetto è molto interessante, ha coinvolto altri grandi chef, come
Davide Palluda o
Ugo Alciati. Con loro ho incontrato persone che, costrette alla detenzione per lunghi periodi, hanno riversato le loro energie nello studio, nella lettura, ma anche nell’apprendimento delle regole della migliore panificazione, una strada come un’altra sulla via di una possibile redenzione», ossia quanto è, o dovrebbe essere, l’obiettivo della carcerazione. «Ma soprattutto acquisto il “pane dei carcerati” perché il loro pane è molto buono, altrimenti non lo proporremmo ai nostri clienti».
Il bello che nasce dal brutto: non è solo una questione di (buon) gusto, qui viene in mente De André.