Fuori Expo

26-08-2015

La cucina che è tutto un fermento

Da Aichi, culla del cibo fermentato jap, all'Italia: così si arricchisce la nostra cultura gastronomica

La lavorazione tradizionale del miso alla Maruya H

La lavorazione tradizionale del miso alla Maruya Haccho Miso: l'azienda esiste dal 1337, non aggiunge additivi. Soia e sale - ha spiegato a Milano il patron, Asai Nobutaro - vengono posti in queste botti di legno del diametro di 2 metri, alla sommità delle quali sono sistemate 400-500 pietre, per un totale di 3 tonnellate di peso. Poi si lascia fermentare per due anni. Questo tradizionale modo di preparazione è portato avanti da circa 50 artigiani

«Abbandonato lo chef come deus ex machina, la fermentazione si fonda sul rispetto e sulla collaborazione tra uomo e natura, un concetto profondo e meraviglioso. Una cucina rispettosa ma non succube». Noi di Identità Golose stimiamo molto Cristina Bowerman; per questo mi è parso doveroso rileggere uno splendido articolo che scrisse per noi due anni e mezzo fa – lei è sempre più avanti – e iniziare proprio da queste sue parole illuminate per parlare oggi di fermentazione, all’indomani del bel simposio che la prefettura di Aichi ha voluto dedicare al tema.

Aichi – il cui capoluogo è Nagoya - si trova nel Giappone centrale, sull'isola di Honshū, più o meno a metà strada tra Osaka e Tokyo: è un territorio che rappresenta una fonte inesauribile di prodotti fermentati, considerati uno dei due segreti della cucina giapponese, l’altro sono i brodi umami (ne abbiamo parlato recentemente). Qui si trova la più antica azienda produttrice di mirin e la più importante di aceto, abbondanti varietà di shoyu (salsa di soia) e di miso, oltre 40 aziende di sake… Insomma tutti quei condimenti fermentati che declinano al meglio la tavola dell’isola in termini di ricchezza gustativa e salubrità.

Il summit di Milano. Da sinistra, Mototsugu Hayashi, Marco Massarotto, Asai Nobutaro, Andrea Pezzana e Masashi Kato

Il summit di Milano. Da sinistra, Mototsugu Hayashi, Marco Massarotto, Asai Nobutaro, Andrea Pezzana e Masashi Kato

Sono alimenti preziosi che derivano da processi di produzione lunghi e raffinati, ha spiegato Masashi Kato, docente all’università Meijo. Come nel caso dell’haccho miso, ossia il miso di soia (le altre tipologie, meno pregiate, sono quelle di riso e di frumento), basato su materie prime semplici – fermento koji della soia e sale, null’altro – e che prevede un periodo di fermentazione molto lungo, di circa 1000 giorni. L’esito però è straordinario: possiede eccellenti proprietà culinarie, rafforza il sapore di carne e pesce, elimina il cattivo odore degli ingredienti, è ricco di gusto e proteine quanto povero di sale, aiuta la riduzione del colesterolo grazie alle melanoidine così come la pressione arteriosa con i peptidi, mentre il suo isoflavone ha ottime capacità antiossidanti…

E’ solo un possibile esempio: quasi tutte le suddette caratteristiche si ritrovano, infatti, anche nella salsa di soia shoyu, in particolare nel raro tamari shoyu, nato dal liquido filtrato raccolto dal processo di fermentazione del miso di soia, la cui densità sapida di sposa alla perfezione con sashimi, sushi, ma anche con tutta la cucina teriyaki. Ancor più raro è il shiro shoyu, ossia la salsa di soia bianca, dal colore chiaro, ottimo nei brodi, nel chawanmushi, ma adatto pure sulla tavola occidentale.

Shoyu, mirin, aceto giapponese...

Shoyu, mirin, aceto giapponese...

E come non ricordare anche il mirin, sorta di saké dolce derivato da riso glutinoso, riso maltato e alcol? Si potrebbe continuare a lungo, ma basti questa considerazione: gli alimenti fermentati sono comuni in tutto il mondo (si pensi ai formaggi, al vino, ai salumi…) ma quelli made in Japan presentano peculiarità uniche. I giapponesi hanno sfruttato le caratteristiche climatiche della loro terra – circondata dai mari, con alte temperature e umidità – per sviluppare una vera e propria “cultura della muffa”: grazie all’alto potere di decomposizione del koji-kin (fungo Aspergillus oryzae) proteine e amidi vengono trasformati nei componenti fondamentali del gusto umami, il che significa tanto sapore, poco sale e ancor minore contenuto calorico. Una manna, anche per l’Occidente sovrappeso e afflitto da problemi cardiovascolari.

Una manna la cui tipicità e originalità va però difesa, come ha ricordato durante il simposio Andrea Pezzana, docente di nutrizione all’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo: «Noi di Slow Food siamo impegnati a creare un ponte tra dieta mediterranea e jap, alla ricerca di elementi comuni nel nome della salubrità e del plusvalore rappresentato dall’artigianalità delle produzioni». I cibi fermentati, ha ricordato Pezzana, aiutano a mantenere nel nostro corpo i ceppi batterici “buoni”, ossia non quelli ad azione putrefattiva. Ma hanno un altro vantaggio: risultano più digeribili e migliorano la capacità di assimilare cibi invece “critici”, «i nostri vecchi lo avevano capito, noi ora possiamo fornire anche il fondamento scientifico» (si pensi quanto sia più ostico un impasto della pizza realizzato in poche ore, con lieviti chimici, rispetto a uno a lenta lievitazione, con lieviti naturali).

Haruo Ichikawa al lavoro al termine del simposio

Haruo Ichikawa al lavoro al termine del simposio

Ovvio, dunque, che si moltiplichino le iniziative volte a diffondere maggiormente anche nel nostro Paese la cultura di questi prodotti. Marco Massarotto, presidente dell’associazione La via del sake, ha raccontato il crescente interesse nei confronti della bevanda nipponica, che condurrà tra l’altro alla seconda edizione del Milano Sake Festival, in programma il 12 e 13 settembre prossimi: «Noi siamo figli della tradizione del vino, dunque accostarci al sake è una sfida doppia: di mercato e culturale. E non si può che partire smentendo certe idee diffuse: il sake non è un superalcolico, ma un vino di riso; non si beve solo caldo; non è un vino da dessert».

E amplia la gamma degli abbinamenti possibili col cibo, a tavola, come ha spiegato Mototsugu Hayashi, miglior sommelier d’Italia 2012, già con Gualtiero Marchesi, con Andrea Berton al Trussardi alla Scala e coi Santini a Canneto sull’Oglio, ora impegnato nell'import-export con Vino Hayashi. Ha preparato la carta dei sake per il ristorante Gong. Sottolinea, insieme a Massarotto: «Il sake è perfetto con il tartufo, la bottarga, le vongole, il parmigiano, il prosciutto crudo. E nulla è meglio con le ostriche». Viene però ancora esportato pochissimo, solo il 2/3% della produzione.

Un peccato, perché poi risulta delizioso abbinato alla degustazione finale dei temakizushi preparati per l’occasione dal maestro Haruo Ichikawa di Iyo.


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Carlo Passera

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Carlo Passera

classe 1974, milanese orgoglioso di esserlo, giornalista professionista dal 1999, ossia un millennio fa, si è a lungo occupato di politica e nel tempo libero di cibo. Ora fa l'opposto ed è assai contento così. Appena può, si butta su viaggi e buona tavola. Coordinatore della redazione di identitagolose.it e curatore della Guida di Identità Golose alle Pizzerie e Cocktail Bar d'autore. Instagram: carlopassera

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