11-08-2015
Tierra de Cacao è il signature dish di Carlos García, chef venezuelano che si propone al ristorante Alto di elevare la cucina a elemento identitario per il riscatto del suo Paese
«Facciamo della tavola il miglior punto d’incontro con il Paese che siamo e che amiamo; la usiamo come specchio per “mangiare noi stessi”, senza alcun complesso. Concimiamo il suolo con le nostre radici, pensando al futuro. Esprimiamo la nostra geografia e le idiosincrasie attraverso metafore alimentari che invitano a gustare il Venezuela». Basta leggere queste frasi, sul sito del suo ristorante Alto di Caracas, per comprendere come Carlos García non si consideri solo il miglior chef venezuelano – lo certifica anche la 50 Best sudamericana, classificandolo al 28° posto continentale, unico di quello Stato nella prestigiosa lista - ma qualcosa di diverso, e di più importante: una sorta di demiurgo di un rinnovato orgoglio nazionale che passa attraverso la riscoperta dell’identità culinaria; il maieuta di un movimento che attraverso l’alta ristorazione coinvolga anche contadini, allevatori, ma in generale tutto il popolo.
Sono concetti familiari, basti leggere questa nostra recente intervista a Gastón Acurio. García, insomma, come omologo venezuelano di quel movimento che, “pensato” dal peruviano, vede protagonisti oggi a Lima anche Virgilio Martínez e Diego Muñoz, ancor prima Alex Atala in Brasile, e poi Helena Rizzo e Rodrigo Oliveira a São Paulo, Germán Martitegui in Argentina, Kamilla Seidler in Bolivia, Alejandro Morales in Uruguay, Juan Manuel Barrientos in Colombia, Rodolfo Guzmàn a Santiago del Cile ed Enrique Olvera a Città del Messico? García nega questa affiliazione, ed era prevedibile: altrimenti che orgoglio nazionale sarebbe?
Carlos García al pass di Alto
Un’occasione per scambiare con lui due chiacchiere, tra una portata e l’altra. Classe 1973, alto di statura, fisico imponente, un volto che sembra la fusione tra Maurizio Crozza e Ronaldo. Si è concesso volentieri al nostro taccuino, anche se ben presto Bottura lo avrebbe richiamato al pass.
Spiega così la sua cucina: «Partiamo da un concetto: anche in Venezuela la crisi si riflette sulla vita quotidiana della gente. Per questo, noi ci proponiamo di aiutare i produttori, valorizzando le materie prime locali che ci forniscono. Ne vogliamo esaltare l’artigianalità e facciamo sistema con loro, mettendoci in diretto contatto».
Una scelta che trascende la sua formazione professionale, che si è svolta in gran parte presso prestigiosi indirizzi europei. Ha abbandonato gli iniziali studi di Giurisprudenza per diplomarsi in Amministrazione. Ma ha svolto questa professione per poco tempo: ha deciso ben presto di dedicarsi alla sua vera passione, la cucina, cui è legato da una relazione affettiva trasmessagli da nonna Antonia, che ne ha plasmato la memoria gustativa (lui la definisce una "general en jefe" ai fornelli).
García (è quello più in alto di tutti) e la brigata di cucina l'altro giorno al Refettorio Ambrosiano, con Massimo Bottura (foto Luca Fantin)
Uno sforzo complesso. A Mesamérica 2012, ha definito la sua patria parafrasando una frase di Rómulo Gallegos: "Il mio povero ricco Paese". «In Venezuela trovare un litro di latte o del burro a volte può risultare un’impresa titanica. Ma abbiamo un debito nei suoi confronti: siamo una nazione che può ritrovare sé stessa proprio attorno alla tavola. Attraverso la cucina».
Per questo oggi i suoi sforzi sono tutti indirizzati «a interpretare in chiave moderna i sapori della tradizione, i profumi della mia e nostra memoria». Sorta di madeleines che rievochino «i momenti speciali della vita. Ideiamo quelle che io chiamo “metafore commestibili”». Un esempio? «Realizzo un dolce con ingredienti che vengono dal deserto venezuelano. E il piatto dovrà sembrare dunque una delle sue dune».
Una pianta di cacao, stilizzata, è il logo del ristorante Alto
Il signature dish dello chef è dunque Tierra de Cacao, che ne propone sette tipi contemporaneamente. «Null’altro rappresenta meglio noi venezuelani. E’ la chiave per comprendere la nostra identità. Paradossalmente, in passato a causa del suo valore economico è stato usato più come moneta di scambio che come prodotto commestibile – il denaro, infatti, non si mangia. Da Alto, diamo il nostro contributo per riconciliare questo ingrediente con la tradizione culinaria, poiché il cacao venezuelano ha caratteristiche uniche e potenzialità enormi in cucina».
Così nel ristorante di García è possibile chiedere un menu tutto a base di cacao, dall’antipasto al dessert. Lo chef azzarda un paragone: «Potrebbe essere paragonato all'uva bianca nel mondo del vino. La fava di cacao è bianca all'interno, priva di tannini, non è acida né astringente, anzi dolce; sa di noce, risulta delicata e persistente in bocca. Evoca fiori di mogano, poi malto, melassa, zucchero di canna, miele, frutta secca, guava, banana, plátano, agrumi e sentori affumicati... E’ il simbolo del nostro sviluppo possibile, del nostro orgoglio. Da far conoscere e portare in tutto il mondo».
Racconti, consigli e assaggi dalla città dell'Esposizione Universale 2015
di
classe 1974, milanese orgoglioso di esserlo, giornalista professionista dal 1999, ossia un millennio fa, si è a lungo occupato di politica e nel tempo libero di cibo. Ora fa l'opposto ed è assai contento così. Appena può, si butta su viaggi e buona tavola. Coordinatore della redazione di identitagolose.it e curatore della Guida di Identità Golose alle Pizzerie e Cocktail Bar d'autore. Instagram: carlopassera