25-09-2024
Elisabetta Foradori con due dei suoi figli, Emilio e Theo, tra le pergole della sua azienda (cortesia Azienda Agricola Foradori)
Ci si addentra nella Piana Rotaliana, nella parte alta del Trentino, scortati da impressionanti pareti rocciose verticali di granito, calcare e porfido. In questa pianura di origine alluvionale, attraversata dal fiume Noce, si parlava e si scriveva del Teroldego Rotaliano già nel XV secolo: questo vitigno alpino imparentato, pare, con il Pinot Noir, ha avuto tutto il tempo di adattarsi a questi luoghi - dove gode della protezione dei venti freddi offerta dalle barriere naturali - e diventarne il veicolo più fedele. Ma un luogo e un vitigno da soli non bastano a esprimere un terroir: c’è bisogno di un interprete. Siamo andati a incontrare la più famosa, che tanto ha legato la sua storia e il suo percorso a questa uva, con cui si misura ormai da 40 anni rotondi, da venir battezzata la "Signora del Teroldego”.
Dopo aver passato una mattinata assieme a Elisabetta Foradori, vien voglia di andarsi a rileggere la famosa citazione di quel tale di Francoforte che diceva, pressappoco, che in una bottiglia di vino si trova più filosofia che in tutti i libri del mondo. Vien voglia anche di andarsi a ripassare la etimologia della parola “umiltà”, e della parola “uomo”; vengono entrambi dalla parola humus: terra.
Elisabetta Foradori
Oggi tocca a chi scrive raccontare il grandissimo lavoro che si fa tra questi vigneti, per cercare di rendere a parole il pensiero che muove Elisabetta Foradori e la sua famiglia. Pensiero e filosofia di cui i vini eccezionali che qui si producono sono traduzione liquida. Per farlo - spoiler - si userà ripetutamente la parola diversità – lemma che abbiamo ritrovato innumerevoli volte nei nostri appunti e concetto ascoltato reiteratamente nella mezza giornata passata assieme a lei e al figlio Emilio Zierok: camminando assieme a loro tra i vigneti, schivando le pozzanghere lasciate da una annata incredibilmente piovosa; scendendo tra le anfore che popolano la cantina, assaggiando assieme i vini e (udite!) i formaggi prodotti secondo gli stessi principi.
Le pergole di Foradori e le pareti rocciose che le proteggono dai venti freddi provenienti da Nord
Iniziò a lavorare tra le sue vigne nel 1984, nell’azienda acquistata dal nonno negli anni '30, appena uscita dalla scuola San Michele all’Adige. Assieme al marito Rainer Zierok (scomparso nel 2009), dalla fine degli anni ’80, rivoluzionò l’identità aziendale e quella dei vini che vi si coltivavano. Quest’anno compie 40 anni rotondi tra le sue vigne, lavora assieme a tre dei suoi quattro figli (Emilio, Theo e Myrtha) e ha mantenuto intatta quella filosofia agraria che da decadi guida il suo modo di camminare tre i filari e di stare al mondo, regalando anzi maggior profondità e completezza grazie a progetti quali quello della produzione casearia e delle viti da seme.
Elisabetta assieme a tre dei suoi quattro figli. Da sinistra: Theo, Emilio, Myrtha (cortesia Azienda Agricola Foradori)
Cosa pensarono allora Elisabetta e Rainer? «Di intraprendere un grandissimo lavoro di ri-selezione del Teroldego, che è alla base di quello che facciamo oggi: andarono in vecchie vigne della varietà, piantate tra gli anni Trenta e Quaranta, alla ricerca delle piante più spargole e meno compatte e rifecero una loro selezione massale. Da lì parte tutto: la genetica è stata alla base del lavoro seguente»
«Oggi lavoriamo con un vigneto che è una selezione massale piantata in maniera random: qui abbiamo 40 tipi diversi di Teroldego» («Una popolazione di piante/individui diversi», come ci ha detto Elisabetta). «Quando ci avviciniamo alla vendemmia si apprezza di più la differenza tra le piante». Differenza che si riflette in diverse epoche di raccolta? «No: chiaramente gli stadi di maturazione saranno diversi. Però questa diversità è proprio quello che cerchiamo; alcune uve apporteranno maggiore acidità, altre maggiore concentrazione. Questi diversi caratteri andranno a completare la complessità del profilo dei vini».
Le viti, come liane, riprodotte non per talea ma per autofecondazione: utilizzando i vinaccioli della pianta. L’obiettivo del progetto “viti da seme” mira a permettere al vitigno di esprimere la sua naturale e intrinseca variabilità genetica e morfologica (che si perde con la riproduzione per talea)
Altro passo importante per l’azienda fu la conversione all’approccio biodinamico, nel 2003, che ha influenze sul modo in cui si lavora tanto nel vigneto come in cantina. «Secondo dati dell’istituto di San Michele all'Adige, contando i microorganismi nel terreno – quantità e qualità – si trova un 30% in più di diversità rispetto a una vigna convenzionale» ci spiega Emilio. «Quello che a noi interessa è avere diversità non solo nella genetica ma anche nel suolo, per poi ritrovarla anche nel vino e avere come risultato unicità. Anche la selezione di lieviti e batteri che popolano la nostra cantina è importante: questa contaminazione positiva influisce sul carattere di quanto finisce in bottiglia».
«Applichiamo la biodinamica anche in cantina - ha aggiunto Elisabetta - Tra queste mura c’è un individuo - uomo o donna che sia - che deve preservare quanto più possibile tutta la vitalità e le informazioni create nel vigneto. Durante i processi di trasformazione succede di tutto; con le fermentazioni spontanee c’è un mondo di vita che si trasforma ed evolve: entrano in gioco istinto e osservazione. Quando ci sono delle deviazioni o delle decisioni da prendere, il modo in cui si interviene è soggettivo. Noi abbiamo i nostri valori sul metodo agricolo e su come condurre la trasformazione; poi le scelte con le quali ognuno ci arriva sono diverse. Interpreti distinti e pure anni differenti danno luogo a percorsi originali. Le uniche cosa che qui non si troveranno mai sono regole e schemi».
In cantina si contano 247 tinajas, anfore, che l’artigiano Juan Padilla produce a Villarobledo, in Spagna. Elisabetta le introduce in cantina nel 2009 (grazie all’amico Giusto Occhipinti che le scovò in un paesino della penisola iberica). «Cercavo un contenitore per la Nosiola, me ne sono innamorata»
Vino icona dell'azienda. Il granato, o melograno, battezzò prima questo Teroldego per poi diventare logo dell'azienda agricola. Un vino rosso elegante, profondo, potente. Fermenta in grandi tini di rovere aperti per poi affinare in botti di acacia per almeno 15 mesi
Parlando di grandi vini, merita una menzione speciale la meravigliosa Nosiola dell’azienda, un vitigno autoctono del Trentino, a bacca bianca, tradizionalmente e storicamente vinificato a contatto con le sue bucce. Bianco con una personalità da rosso, un vino con una fenomenale capacità di invecchiamento – di più: un vino che solo con qualche anno sulle spalle dimostra tutto il suo carattere. Vitigno ridotto ad appena a 50 ettari in tutta la regione (70 secondo il sito del Consorzio Vini del Trentino): esempio dell’erosione genetica contro cui rema la Foradori. In azienda se ne coltivano 4 ettari per ora (dei 29 totali), una vigna vecchia trovata nei terreni acquistati a Fontanasanta e che ha dato vita a uno dei vini - secondo chi scrive - più interessanti dell’azienda.
Vini, Formaggi, Ortaggi. La diversificazione agricola è dichiarata già dai cancelli d'entrata ed è parte fondante dell'identità aziendale
Una novità in azienda: la produzione casearia compiuta seguendo gli stessi principi della produzione del vino. Formaggi a latte crudo, da pascolo in vigna, a fermentazione naturale cioè senza colture starter industriali. «È un’esperienza meravigliosa fermentare qualcos’altro. È un processo più complicato di quello della vinificazione» ci ha detto Elisabetta (cortesia Azienda Agricola Foradori)
Una orgogliosa casara con una delle sue forme e il vino che meglio si sposa con questi formaggi: la Nosiola. Un vino sapido, corposo, complesso, con una bellissima acidità: colonna vertebrale che gli permette di invecchiare alla grande. Vino che richiama la stessa identità dei formaggi e li accompagna alla perfezione
Attraverso il recupero di gesti che tradizionalmente erano vissuti come complementari alla prodizione del vino, si fa rivivere la pergola come era una volta: «La pergola nasce con l’idea di nutrire le persone e gli animali - ricorda Emilio - Tra le pergole si seminava il fieno e gli ortaggi e se, l’anno era buono, si faceva anche del vino. Due tre volte all’anno si tagliava il fieno tra i filari, sotto ceppo si piantavano patate e leguminose per mangiare: la viticoltura era legata al nutrimento del nucleo famigliare che ne dipendeva». Tutto cambia, ci spiega Emilio, dopo la seconda guerra mondiale quando i contadini iniziano a guadagnare abbastanza con l’uva da vino e smettono di fare il resto. Rimane la pergola, svuotata del suo significato e della sua funzione.
Tre delle cinque declinazioni che Foradori dà del Teroldego. Mancano i due vini Foradori e Lezèr
Ancora sulla diversità: il Lezèr (leggero) è un rosato fresco, disimpegnato (anche nel prezzo!), beverino e delizioso. Un Teroldego nato dall’assemblaggio di prove diverse di vinificazione in diversi contenitori (anfora, cemento, acciaio). L’etichetta cambia ogni anno, così come cambia il carattere dell’annata e come cambia l’interprete stesso che non rimane lo stesso di anno in anno. Da collezionare perché sono bellissime
Più filosofia che in tutti i libri del mondo. Filosofia agraria che dà risultati commestibili genuini, vitali e deliziosi: espressione di un luogo, e veicolo di un pensiero preciso che quel luogo lo custodisce e protegge.
Storie di uomini, donne e bottiglie che fanno grande la galassia del vino, in Italia e nel mondo
di
nata a Milano da madre altoatesina e padre croato cresciuto a Trieste. Ha scritto (tra gli altri per Diario e Agrisole) e tradotto (tra le altre cose: La scienza in cucina di Pellegrino Artusi) per tre anni dall’Argentina dove è tornata da poco, dopo aver vissuto tra Cile, Guatemala e Sicilia. Da Buenos Aires collabora con Identità Golose e 7Canibales
Una vista aerea della tenuta di Ampeleia, in Località Meleta, a Roccatederighi (Grosseto)
Tra gli obiettivi di Cantina Toblino c'è quello di valorizzare la Nosiola