Credo di essere stato tra i primi ad assistere al giorno in cui molti ragazzi giapponesi hanno iniziato a popolare le nostre cucine italiane. Erano gli inizi degli anni Novanta: incuriositi dalle nostre tradizioni gastronomiche, tanti di loro cominciavano a capire che c’è altro oltre la Francia. Erano ancora in pochi, ma il fenomeno era destinato a prendere piede.
A esser sinceri, non tutti all’inizio li accoglievano felicemente. Stupiva infatti quel modo di obbedire ed eseguire quasi meccanicamente, senza opposizioni del proprio punto di vista. A me, invece, era l’aspetto che colpiva di più. Li osservavo incuriosito e affascinato. Li guardavo fare, disfare e rifare ancora. Riproducevano minuziosamente tutto quello che avevano appreso. Modellavano i tortelli con movimenti ripetitivi, fino a ottenere la copia perfetta. Mi stupivo della loro obbedienza, che arrivava dove la nostra non sarebbe mai potuta arrivare. Ricordo che una volta chiesi al nostro Takashi Murata, cuoco che ha passato almeno 10 anni in Italia: «Chi chiude meglio i tortellini tra me e Italo? (Italo Bassi, con Monco co-chef dell’Enoteca Pinchiorri di Firenze, ndr)». Sudava. Eravamo i suoi chef alla pari, non voleva scegliere. «Insomma, Murata, bianco o nero?». «Grigio!», rispose.

Un melone in Giappone può arrivare a costare 200 euro
20 marzo 1995. È la data del mio primo viaggio in Giappone. Ero sbarcato a Tokyo, dove l’
Enoteca aveva la sua copia gemella, aperta dal 1992 al 2010, nel quartiere di Ginza. Era un’opportunità fantastica. Subito mi ero reso conto che quel desiderio di riprodurre tutto fedelmente era in realtà connaturato nell’indole di un intero Paese: è una sfida continua a chi è più precisamente meccanico. E infatti i vari ristoranti di
sushi,
sashimi,
tempura,
soba,
udon,
yakitori,
shabu-shabu sono tutti iper-specializzati in una sola preparazione: è facile che un cuoco compirà per tutta la sua carriera un solo movimento, una sola tecnica. Col desiderio di poter raggiungere, un giorno, la perfezione.
Notavo un’altra differenza importante, legata al concetto di convivialità. Si sa che a noi italiani non piace entrare nei ristoranti quando le sale sono vuote. Meglio il conforto di una sala festante e gremita. Per un giapponese, invece, la festa è un momento di condivisione tra pochi intimi, possibilmente in piccoli spazi. Infatti, i ristoranti hanno sale divise in più privè o separé, abitudine che per un italiano suonerebbe piuttosto imbarazzante. Così, cominciavo finalmente a capire quanto fosse culturalmente difficile per quegli stagisti passare a lavorare nelle nostre cucine.
Ricordo la sorpresa che provai di fronte ai loro splendidi coltelli: tutt’ora non riesco a farne a meno a Firenze. Mi vengono poi in mente le forme dei piatti: se in Italia eravamo legati al concetto di tondo, lì spopolavano già le forme quadrate, con ampolle e scodelle che avevano la funzione di incorniciare le varie portate. Tutte logiche largamente diffuse oggi anche da noi. Sono contento di esser stato tra i primi ad averci creduto.

Un giovanissimo Riccardo Monco si gusta un piatto di udon nei pressi del mercato del pesce Tsukiji di Tokyo
Gironzolando per i mercati, mi imbattevo in confezioni di frutta e verdura dalle forme, colori e confezioni innumerevoli e sempre perfette. Una maniacalità di composizione riconoscibile a occhio nudo. E visibile pure dai prezzi: un solo finocchio può arrivare a costare 1.500 yen (14 euro) e un melone, regalo ambitissimo in Giappone, può raggiungere serenamente i 20mila yen, 185 euro! Una volta chiesi il perché di queste cifre folli a Yogi, un ragazzo che lavora ancora con noi in cucina a Firenze. «Perché è un frutto perfetto!», rispose. Spiegandomi poi che in pratica il melone in vendita è l’unico frutto che rimane alla fine di una spietata selezione sulla pianta, condotta per garantire al prescelto una concentrazione elevata di zuccheri.
La mia ammirazione per la loro disciplina e maniacalità influenza ogni giorno da 20 anni i miei piatti, che cerco di concepire con cura dei particolari, essenzialità, linearità e una materia prima di fondo sempre eccellente. Un approccio oriental-giapponese fondamentale. Ancora oggi, quando visito il Giappone, rimango colpito dalla loro educazione e dal senso civico, che certamente li sta aiutando a venire fuori dal disastro dell’anno scorso come non riuscirebbe a nessun altro popolo. Una severa compostezza che è la stessa che trovi dal glorioso ristorante allo sgabuzzino sushi da 5 posti sotto in metrò (Jiro, 3 stelle Michelin ndr).
Concludo col saluto che si fanno tra loro dopo aver passato una giornata di lavoro insieme. Otsukaresama desu, un’espressione molto versatile che nel mondo del lavoro consolida lo spirito della brigata. Tradotto, suona più o meno «Sarai stanco, grazie per il duro lavoro». Otsukaresama desu.