Settimana scorsa abbiamo ospitato all’Hub di Identità Golose Milano la cena Il Mondo in Italia, ordita da quattro cuochi di passaporto diverso, tutti adottati dal nostro paese: la Germania di Christoph Bob, la Spagna di Rafael Charquero, l’Uruguay di Matias Perdomo (che ci ha lasciato considerazioni interessanti), la Francia di Philippe Léveillé.
Avere con noi lo chef bretone del Miramonti l’Altro di Concesio (Brescia), due stelle Michelin, è quasi un privilegio: raramente si concede sortite in cucina fuori dal forte franciacortino, e quando lo fa, difficilmente cede alle insistenze dei microfoni. Lo abbiamo intercettato mentre disponeva delle chips nel piatto al pass di via Romagnosi, un passaggio delicato nell’impiatto delle sue Lumache ‘quasi’ alla Borgognona.
Léveillé è in Italia dal giorno di San Silvestro del 1987. «Arrivai in stazione a Milano e poi presi il regionale per Rovato. Faceva freddo, mi sembrava tutto grigio e cupo, una grande tristezza». Ma dietro l’angolo l’attendeva Iseo e il glorioso ristorante Le Maschere di Vittorio Fusari: «Fui accolto in modo incredibile dalla comunità. Andavo al bar e non facevo in tempo a pagare. Per tutti ero da subito ‘il cuoco francese di Vittorio’». Ospitalità d’altri tempi, è il caso di dire.
Sarebbe rimasto a Iseo per un quinquennio, fino al 25 ottobre 1992, primo giorno di servizio al Miramonti, allora nel paese di Caino. Ventisei anni dopo è ancora lì. Un francese in Italia così a lungo, che rarità. «Ma non sono né il primo né l’unico», precisa, «c’è la grande Annie Feolde e un altro bravo professionista, Bernard Fournier, al ristorante Da Candida, Campione d’Italia»

Le lumache "quasi" alla Bourguignonne, cucinate a Identità Golose Milano
Italia e Francia, cugini contro. Ma non al
Miramonti l’Altro. «Tante volte mi chiedono di definire il mio stile. Io faccio cucina italiana, la
mia cucina italiana. E’ la mia interpretazione, da francese di Cancale. In punta di piedi, con grande rispetto». Senso del rispetto che ai suoi connazionali talvolta difetta: «Le racconto un aneddoto. Tempo fa è venuta una mia connazionale a Concesio. Si lamentava perché non c’era il menu nella sua lingua. Trovato me, ha esclamato: ‘oh, finalmente qualcuno che parla francese’. Ma quando io vado a mangiare in Francia, nessuno mi da mai il menu in italiano. Noi francesi pensiamo sempre di essere al centro del mondo. Siamo più chiusi, meno inclini al confronto. Voi italiani, in questo siete migliorati».
Il piatto nel menu di
Identità Milano diceva però delle sue origini. Perché le lumache sono “quasi” alla Borgognona? «Perché la mia versione è molto più leggera dell’originale: non utilizziamo l’aglio alla maniera classica ma solo i suoi talli e dell’aglio nero fermentato». E il burro? Non c’è: «La cremosità tradizionale è stata ricostruita con una purea di patata all’aglio».
Sulle materie prime, guardare le bandiere di provenienza non ha senso: devono essere semplicemente le migliori in circolazione. «Non dite che sono sciovinista, ma in termini di burro non c’è gara tra Italia e Francia. Fate una prova anche voi: scaldate in un pentolino un buon panetto di burro bretone accanto a uno di burro italiano di qualità; noterete che il vostro rilascerà più acqua. Per fare una salsa
beurre blanc col burro italiano devo utilizzarne molto di più. È una questione di cultura: in Bretagna e Normandia, è un prodotto che si venera da secoli». Ed è più sano di quel che possiamo immaginare: «Gli abitanti di Normandia e Bretagna hanno un tasso di colesterolo tra i più bassi d’Europa». Tesi che
Léveillé ha esplorato in lungo e in largo in “La mia vita al burro”, con l’aiuto del dottor
Mauro Defendente Febbrari (
Giunti editore).
Al contrario, sull’olio extravergine di qualità prevale naturalmente l’Italia. «Non parlo però di quei prodotti a basso costo che si trovano nella grande distribuzione: sono schifezze e nessuno ha il coraggio di dirlo. Io l’ho fatto una volta a un incontro pubblico, ho preso i fischi».
Riflettori che continuano a girare alla larga: «Ho sempre preferito la sostanza delle cose. Alla fine siamo cuochi, facciamo da mangiare. Io ho una serenità invidiabile, una famiglia che mi dà stabilità, cosa posso chiedere di più? Non mi è mai interessato arrivare, diventare qualcuno, lodarmi da solo. I ragazzi di oggi vogliono solo ‘arrivare’. Non capiscono che c’è una grande differenza tra cucinare e fare il cuoco: mia mamma cucina; io sono un cuoco, gestisco un business, ho il personale da pagare. Oggi sono tutti maestri». Non che
Léveillé non abbia allevato cuochi importanti:
Silvio Giavedoni, ora al
Quadri di Venezia o
Ivan Maniago, al promettente
Impronta d’Acqua di Lavagna (Genova). «Ma il maestro rimane uno solo:
Gualtiero Marchesi».
E se gli chiedi se tornerà mai in Bretagna, la risposta è perentoria: «Non mi sfiora neanche l’anticamera del cervello. Ho ancora tanto da dire in Italia».