A volte in un alimento, più che nei libri di storia, possiamo leggere il cammino dell’umanità attraverso i secoli e i continenti, le guerre e i rapporti di forza. Probabilmente ci sono più noti i viaggi dei prodotti fondamentali della nostra civiltà mediterranea - grano, ulivo, vite - ma le trasformazioni sono inarrestabili e quasi ignoriamo ancora i percorsi di molti cibi “esotici”, che, nel tempo, per effetto della globalizzazione, stanno diventando “autoctoni” nelle nostre culture. Come avvenuto per il kiwi, che trent’anni fa era ancora semisconosciuto sulle nostre tavole, oggi ad esempio l’ocra, più conosciuta in italiano come gombo, abelmoschus esculentus la tassonomia scientifica, sta prendendo piede nelle coltivazioni dell’Agro Pontino, data la crescente domanda delle varie comunità di immigrati che popolano l’Italia.
Cos’è l’ocra? All’aspetto la collegheremmo a un peperoncino verde, ma la sua famiglia d’origine, le Malvacee, ci dice che è molto più simile al cacao e al cotone. La pianta è partita dall’Africa, per segnare le tradizioni dell’intero Oriente, dalla Turchia al Giappone, oltre ad aver viaggiato, insieme agli schiavi, verso le Americhe, diventando parte integrante della cucina caraibica e di quella cajun del sud degli Stati Uniti - con il nome di okra o gumbo - e della cucina brasiliana (in portoghese è chiamata quiabo).

Noodles con ocra e gamberi, piatto fotografato in una food court a Singapore
La storia dei prodotti, ai più ignota, diventa importante nel momento in cui la cucina d’autore, in tutto il mondo, riscopre la terra, gli ingredienti locali, il patrimonio autoctono versus l’annoso appiattimento della biodiversità caratterizzato dal dominio della grande cucina internazionale, spesso di origini classiche francesi. Fenomeno tanto più evidente nei paesi emergenti, quelli che fino ad ora avevano relegato le proprie tradizioni locali alle bettole di periferia, evitandole nell’alta cucina come un marchio di infamia.
Oggi le cose sono molto cambiate: ci troviamo a parlare di radici, di localismi, di Amazzonia e di America Latina nei grandi congressi di gastronomia, da
Gastronomika alla prossima edizione di
Identità Milano), quasi trascurando come l’argomento costituisca già, di per sé, una rivoluzione concettuale senza precedenti. I cuochi sudamericani, soprattutto in
Brasile e
Perù, macinano velocemente chilometri sulla strada della biodiversità, coscienti dell’enorme giacimento ancora da scoprire: il foglio è bianco e l’avanguardia sta decidendo il futuro, ciò che diventerà la nuova tradizione latina, partendo proprio da dove si deve partire, dal passato e dalle radici delle proprie genti. Il fatto, poi, che il meticciato e la mescolanza siano la cifra inconfondibile di questo tormentato continente non fa altro che arricchire un patrimonio di per sé geograficamente immenso.

Curau, buccia di banana e caviale di tapioca di Roberta Sudbrack, cuoca del ristorante omonimo di Rio de Janeiro, +55.21.38740139
Così va a finire che un ristorante di San Paolo del Brasile - il
D.O.M. di
Alex Atala, relatore a
Identità Milano 2012 - diventi uno dei
dieci migliori al mondo. Così va a finire che nella cucina più blasonata di Rio, quella di
Roberta Sudbrack, altra relatrice a Milano a febbraio, nota per essere stata la chef dell’ex-presidente
Cardoso, entri da protagonista il prodotto con cui abbiamo iniziato il nostro discorso, quell’umile vegetale che gli africani in catene portarono con loro in una delle pagine più brutte della storia. Uno dei piatti cult della
Sudbrack, il
Quiabo defumado em camarao semicocido (Ocra affumicata con gambero semi-cotto), ricorda una ricetta tipica di Bahia, il
caruru, piatto rituale del candomblè, religione animista, anch’essa originaria del continente nero. Il viaggio dell’ocra continua e con essa il riscatto gastronomico di tutte le culture di cui è diventata simbolo.