11-02-2019
Jeremy Chan, chef di Ikoyi a Londra, una stela Michelin. E' tra i protagonisti del format "Contaminazioni", sabato 23 marzo 2019 a Identità Golose
Jeremy Chan, classe 1987, parla un italiano quasi perfetto – l’avrà imparato lavorando in qualche cucina italiana? Macché, guardando film e leggendo Pirandello e l’Inferno dantesco – e non ha paura di ripetere più e più volte le parole e i concetti che ritiene fondamentali per far capire l’essenza della sua cucina – tra i più frequenti: deliciousness, che tradotto suona pressappoco come “squisitezza”, poi “integrità”, “coerenza”, “non pretenziosità” – evitando gli slogan a effetto.
Ci tiene a non essere frainteso, forse perché gli sta stretta l’etichetta di West African che è stata un po’ sbrigativamente affibbiata alla sua cucina; l’equivoco nasce dal fatto che nel ristorante aperto nel 2017 a Londra, tra Piccadilly e Trafalgar, con il socio e amico d’infanzia Iré Hassan-Odukale – nato a Lagos, Nigeria, nell’elegante quartiere di Ikoyi cui rimanda il nome dell’insegna – Jeremy ha deciso di concentrare le sue sperimentazioni gastronomiche su ingredienti di quella parte del mondo, poco noti ai nostri palati e dunque molto stimolanti per uno chef con l’animo da ricercatore (inteso più alla Isaac Newton che all’Indiana Jones) come il suo. E anche perché è in generale refrattario alle catalogazioni e alle definizioni tagliate con l’accetta.
Per esempio, è stato invitato tra i relatori del congresso per il nuovo format Contaminazioni – in programma sabato 23, in Sala Blu – e di certo non si è tirato indietro, ma ci tiene a specificare: “Non considero la mia una cucina contaminata, per me in questo termine c’è un senso negativo che indica l’inquinare, il distruggere qualcosa. Capisco l’idea della contaminazione gastronomica in prospettiva mondiale alla base del format; ma quello che facciamo da Ikoyi ha più a che fare con la creatività personale, con la mia interpretazione di colori, sapori e consistenze che voglio trasmettere nella maniera più immediata possibile”.
L'insegna londinese (foto Ratensperger)
Per esempio, memoria. “La memoria è importante ma è qualcosa di personale; io ho un grande archivio di sapori e texture nella mia mente, sono piuttosto ossessivo nell’imparare e ricordare e grazie a quello riesco a creare ricette e abbinamenti tra ingredienti che funzionano senza bisogno di fare prove. Ma questo non deve necessariamente trasparire, quello che conta è soprattutto il risultato, il gusto profondo del piatto che viene percepito dal cliente dandogli soddisfazione. Il mio obiettivo è creare un piatto che sia un’esperienza ma in maniera non pretenziosa, mettendo in evidenza la deliciousness dei prodotti che utilizzo senza dover per forza aggiungere complessità”. Notevole, in un mondo dove gran parte degli chef aspira al ruolo di guru gastronomico, e non solo. “Non mi piace l’idea dello chef come un dio del sapore. La cucina per me deve risultare accessibile, immediata; questo è l’obiettivo culturale del cibo”.
Le pur inevitabili influenze dei cibi che ha mangiato e amato nel corso della sua vita – inclusa parecchia cucina italiana – sono difficilmente individuabili nei suoi piatti, così come gl’intrecci genetici sono appena percettibili nei tratti somatici di questo ragazzo del North West inglese. Dunque, non aspettatevi racconti sulla cucina della nonna, avvincenti storie sulla sua infanzia multiculturale o su illuminanti epifanie gastronomiche nigeriane.
Platano, lampone e Scotch Bonnet affumicato (foto Clerkenwell Boy)
E Chan si prende pure la licenza di mettere in menu preparazioni tradizionali senza preoccuparsi troppo della loro corrispondenza filologica; come il maafe, ricetta diffusa in tutta l’Africa Centrale e Occidentale che indica uno stufato o una salsa a base d’arachidi, da lui reinterpretato in una salsa di carote rosse della Normandia densa e avvolgente, arricchita dal collagene del brodo di piede di vacca, che, insieme a un’altra salsa di carote dalla consistenza setosa e leggera e dal gusto lievemente acidulo dato dall’aceto di Chardonnay e del frutto disidratato del baobab, accompagna il filetto di manzo appena scottato.
“Non è un maafe, ma mi piaceva l’idea del maafe”, spiega. “A me interessano i prodotti, non il contesto. Non parto da un’idea fissa ma ricerco la mia interpretazione personale che dia vita a sapori oggettivamente buoni; voglio che ogni mio piatto offra un’esperienza a chi lo mangia ma non in maniera pretenziosa. Le mie ricette nascono dai miei sogni, e da una specie di “feticismo” per gli ingredienti, ma la mia interpretazione deve prima di tutto far contento chi lo mangia. Così, per me il platano è un ingrediente e basta, non un ingrediente africano”.
È proprio il platano che apre e chiude il bel menu degustazione proposto in questo momento da Ikoyi (ma cambia spesso, la portata iniziale è l’unica presente sin dall’apertura), una sequenza di piatti all’apparenza semplici ma capaci di giocare su diversi livelli percettivi, mescolando consistenze, acidità, note umami e toni “bruciati” tenendo come filo conduttore la sensazione piccante modulata di volta in volta. Si parte con il platano fritto ricoperto con polvere di lamponi disidratati, accompagnato da una potentissima salsa al peperoncino Scotch Bonnet che suona come una vera e propria sveglia per il palato e attira l’attenzione del commensale sul piatto (e, con lieve sadismo, Chan aggiunge: “Mi piace far soffrire un po’ chi mangia da me, la vita è un insieme di sofferenza e piacere”).
Con il partner Iré Hassan-Odukale (foto london.eater.com)
Ikoyi 1 St James's Market St. James's, Londra Regno Unito +442035834660 Menu degustazione: 60 sterline Chiuso domenica Leggi anche La scheda di Ikoyi
Recensioni, segnalazioni e tendenze dai quattro angoli del pianeta, firmate da tutti gli autori legati a Identità Golose
a cura di
giornalista, napoletana di nascita e romana d'adozione, cerca di unire le sue tre passioni: mangiare, viaggiare e scrivere