“Aimo Moroni come nessun altro in Italia ha puntato a creare una cucina nazionale” si legge nel catalogo della mostra Regine & Re di Cuochi, che termina proprio domani al castello di Stupinigi (oggi alle 17,30 uno degli ultimi appuntamenti più attesi, quello con Paolo Marchi). Il volume, curato da Marco Bolasco, Elisia Menduni, Bob Noto, Nicola Perullo e Fabio Rizzari, è splendido e fotografa alla perfezione, nello specifico, il ruolo che ha avuto lo chef di origine toscana in oltre 50 anni d’attività.
Qui avevamo raccontato un suo capolavoro: l’essere riuscito a trasferire a una giovane generazione – quella di Alessandro Negrini e Fabio Pisani - prima ancora che uno stile, un vero concetto di tavola nazionale; un patrimonio ideale, una forma mentis: l’unione straordinaria (e invincibile?) della grande memoria gastronomica italiana con un gusto culinario contemporaneo. Vediamo di ragionare ora su quale sia questa eredità trasmessa. Sempre con le parole dell’interessato e di sua figlia Stefania.

Gli Spaghettoni al cipollotto, uno dei piatti celeberrimi di Aimo e Nadia. La prima versione è del 1965
Come nasce la “formula Aimo e Nadia”, chiamiamola così?
Stefania Moroni: «Oggi si dà per scontato che un piatto a base di cipolle possa essere buono quanto quello che prevede materie prime costose. Ricordiamo però come in tutti gli anni Cinquanta e Sessanta la cucina “alta” era francese, proteica, ricca, studiata per il cliente che magari andava apposta fino a Parigi per gustarsela. Fu mio padre a cambiare le cose, insieme a pochi altri, penso a Franco Colombani».
Aimo Moroni: «Non mi piace la definizione di “cucina povera”, perché proprio questa povertà è la sua ricchezza. Sono in Italia, posso contare su materie prime straordinarie, vado al mercato, acquisto il meglio e in base a quello che porto a casa mi arrangio e creo la ricetta. Mai il contrario».
Niente eccellenza, niente acquisto, niente ricetta.
AM: «Certo. Per decenni non ho usato origano, arrivava dalla grande distribuzione. Poi siamo andati 4 giorni a Pantelleria e ho visto questo origano verde brillante, seccato dal sole e dal vento: non diventa nero, mantiene un profumo intenso. Così è entrato nella mia cucina».
SM: «Si può dire lo stesso di tutto il resto: dall’olio siciliano alla carne piemontese di Martini».
Fornitori straordinari che vi seguono da decenni…
SM: «…e che sono ormai nostri “complici”, si è creato con loro un rapporto intenso perché ognuno sa di lavorare non solo per sé, ma di rappresentare una parte del sistema».
AM: «Con molti si è creato un legame speciale. Mancavo quattro giorni dall’Ortomercato e subito la madre di quelli di Fruttasì si affrettava a preparami un caffè, forse il peggiore di Milano, ma indimenticabile: “T’ho minga vist, te ste ben?”. O penso a Michele Martini, cvecchio macellaio a Boves (classe 1926, ora il figlio Roberto ne continua l’opera, ndr): mi scrive poesie su fogli A4, poi me le spedisce. Parlano di autunno, uva, capponi e così via».
SM: «Papà gli risponde chiamandolo al telefono: un’ora a raccontarsi la nebbia».

Aimo all'Ortomercato milanese con Pisani e Negrini
Com’è il cappone perfetto?
AM: «Deve avere gambe di coccodrillo e la forma di un Concorde: alto, con la testa sottilissima, non grasso. Quello è il cappone giusto».
SM: «Tutte queste storie hanno nutrito una squadra speciale, per questo non possiamo spostarci da via Montecuccoli. Negli anni si è formata una magia che non si deve né si può spezzare, una sorta di genius loci. Abbiamo clienti che vengono qui da 30, 40 anni, non possiamo allontanarcene perché perderemmo il patrimonio della memoria, una rete di relazioni che fa perno tra queste mura. Fabio e Alessandro non hanno capito subito questa cosa, ma ora sì, e ne traggono nutrimento».
Una critica alla tavola d’oggi?
AM: «Prima una critica alla spesa, che come abbiamo detto è un passaggio fondamentale. Si parla tanto di cucina, poco o nulla di come e cosa si deve acquistare. Si va dal calzolaio e si provano 20 paia di scarpe, poi magari se ne acquista uno; invece si va dal macellaio e sbrigativamente: “Mi dia tre bistecche per favore”. Non va bene».
Impariamo allora a comperare. Ma cosa non va nella ristorazione?
AM: «Siamo la patria cucina mediterranea e forse non la valorizziamo come dovremmo. A Milano è più facile mangiare sushi che vermicelli alla pummarola. Invece io sono orgoglioso di aver portato avanti – e di portare avanti con Fabio e Alessandro – la grande e buona cucina italiana, senza rigidità mentali ma con fantasia. Inoltre, penso che il futuro sarà sempre più global, ma una clientela internazionale in Italia all’80% vorrà assaggiare le nostre bontà e quindi non si dovrà mai prescindere da cicoria e fave in Puglia o dal lampredotto a Firenze. Poi, via libera anche alla creatività. Ma questi piatti riflettono la nostra cultura e la dieta mediterranea fa bene alla storia, al palato e alla salute».

La Zuppa Etrusca è nata nel 1980
Non sei comunque un passatista…
AM: «No, anche se quando leggo di giovani chef definiti “innovativi” penso che si faccia loro un male. Ciò li spinge infatti a voler strafare, poi propongono cubetti di fassona uccisi da mille spezie diverse, che coprono il gusto straordinario e delicato della carne più buona al mondo».
SM: «Abbiamo “allenato” Alessandro e Fabio a gestire la loro creatività senza perdere di vista la stella polare del gusto. Avevamo introdotto, ogni lunedì, delle serate speciali a tema, nel quale loro potessero sbizzarrirsi: carta bianca per 6 o 7 piatti di loro concezione. Così abbiamo trovato la giusta lunghezza d’onda».
Oggi c’è piena sintonia?
AM: «Sì, ma sorveglio sempre (sorride, ndr). La mattina vado giù in cantina, osservo la cella frigorifera, assaggio. L’altro giorno ho suggerito di cambiare certi pomodori, perché non andavano bene. Ma in generale, non ci sono problemi, grazie anche al fatto che Stefania è stata straordinaria a tenere ben fermo il timone. Avendo lei di supporto, ho potuto far loro vedere con calma quale fosse la mia idea di cucina».
Qual è la cosa più difficile da insegnare?
SM: «La più difficile è anche la più importante: allargare i confini della percezione del sapore; assaggiare non solo con le papille ma con la mente. A volte per far questo è necessario abbassare la soglia di riconoscibilità di un alimento. C’è un bellissimo romanzo che s’intitola Flatlandia: racconta un mondo in termini matematici e geometrici, con figure solo bidimensionali. I suoi abitanti erano in grado di comprendere solo quello che vedevano, non avevano percezioni ulteriori. Ecco: chi viene qui la prima volta è come se fosse un abitante di Flatlandia, riconosce solo due sapori. Farlo andare oltre è la missione de Il Luogo: cogliere in bocca una struttura più complessa, togliere sale, così da distinguere meglio un aroma dall’altro...».
(2, fine. La prima puntata qui)