Quest’anno Carlo Cracco arriva a New York armato di arancino, un classico siciliano che sotto le sue mani acquista un’eleganza e profumi sconosciuti: «Io sono del Nord, quindi è così per sforza», spiega perentorio. Ma l’identità è mantenuta inalterata e quelli che provano questa ghiottissima entrée al suo ristorante (rigorosamente con le mani) lo sanno bene.
Il ragù, base dell’arancino, è quello della tradizione bolognese: maiale, sedano, carote, cipolle, burro, aglio, vino rosso, pomodori pelati e pepe nero. Ma all’atto finale conoscerà anche un tocco di mozzarella, intervenuta ad aggiungere morbidezza. Il piccolo cono rovesciato col carnaroli allo zafferano verrà servito su una letto di sale e su una serie di erbe cotte che amplificano il profumo: basilico, dragoncello, menta e anche petali di rosa.

Halibut con rape e dashi di bietole di Michael Anthony
Col secondo dei due assaggi entra in gioco invece uno storico simbolo cracchiano, il riccio di mare. Che in questo caso è però quello californiano, più grasso e meno concentrato di quello rosso mediterraneo. Il vicentino lo serve dentro la sua custodia naturale con del moscato leggermente frizzante e dei capperi salati e dissalati. Un altro assaggio molto profumato, che amplifica il leggendario campionario.
Perché quest’amore per i sea urchin? Gli chiedono, «E’ sbocciato negli anni della formazione francese: Oltralpe li cucinavamo con burro, uova e panna, tipo royale alla Robuchon. In Italia abbiamo invece la cattiva abitudine di consumarli appena fuori dall’acqua, con una spruzzata di limone che li ammazza. Ma il riccio è basico, non acido, quindi è meglio non farlo». Meglio magari cimentarsi con uno dei piatti di genio concepiti all’epoca con Marchesi (insalata con branzino e vinaigrette) o quelli a casa sua: pietanze come i Ricci di mare e polvere di caffè o Rognoni e ricci di mare hanno scritto capitoli d'avanguardia importanti nella cucina degli ultimi decenni.
Con Michael Anthony entra invece in scena l’executive chef del Gramercy Tavern, un’importante insegna di cucina contemporanea americana nel Flatiron District di New York. È di proprietà di Danny Meyer, uno dei ristoratori di maggior successo della Grande Mela.

Ricci di mare, Moscato e capperi di Carlo Cracco
Il piatto che
Anthony da Cincinnati ha illustrato a lezione è un
halibut (che tecnicamente tradurremmo con “ipoglosso” ma anche in Italiano normalmente non si traduce)
con rape e dashi di bietole. Il dashi è il brodo base della cucina giapponese, fonte di umami che il cuoco esplora a modo suo con un utilizzo diffuso in diverse pietanze del ristorante. Ottenuto con la classica immersione in acqua di un’alga
kombu e fiocchi di
bonito, e la successiva infusione della bietola cruda, eccolo alle prese coi filetti del pesce cotti in un sacchetto sottovuoto, uno dei 68 modi diversi con cui preparano il pesce (sono tutti elencati in un libro fresco di stampa che si chiama appunto “Gramercy Tavern”, Clarkson Potter editore).
Ci sono anche due pickles, preparazioni marinate, frutto ancora dell’amore per il Giappone, un’aggiunta di acidità che non tuttavia lascia inalterata la quantità di ph degli altri piatti. E altri ingredienti: fagioli di soia, cardi, aglio, bacon, semi di finocchio, grano, zenzero. Un piatto di tecnica intercontinentale, chiuso da un importante concetto: «E’ un momento fondamentale per i ristoranti oggi perché il rapporti coi produttori è tornato prepotente dopo anni di oblio. Oggi abbiamo la grande opportunità di far capire alla gente cosa mangia».