Seguire “la costruzione” di una cena a quattro mani ci aiuta a comprendere ancora di più quanto il lavoro del cuoco sia estremamente complesso, nel gestire le relazioni con i propri colleghi, i fornitori, la disponibilità della materia prima e, ora come ora, anche del personale; provare a immaginare se quella coralità di pensiero e sapori studiati scrupolosamente possa essere compresa e recepita correttamente dagli ospiti, il tutto da giocarsi in poche ore di servizio. Eppure non sarà certo questa complessità a limitare gli scambi o la pianificazione di eventi come quello a cui abbiamo partecipato qualche giorno fa nella casa di Enzo Di Pasquale, il ristorante Aprudia, a Giulianova in provincia di Teramo, che ha accolto per la prima volta in Abruzzo, Mirko Gatti, chef del ristorante àbitat, una stella verde a San Fermo della Battaglia, a una decina di minuti da Como.
Habitat: sono ben differenti quelli di appartenenza dei due.
Partiamo da Enzo. Dalla grandiosità che solo l’Abruzzo è in grado di interpretare morfologicamente avvicinando vette e ghiacciai al mare, distanziati solo da un’ora d’auto così da ricreare un microclima a dir poco unico.
L’Abruzzo è montagna, con le sue erbe selvatiche, la pastorizia inerpicata tra cime rocciose, una rusticità profonda e l’entroterra, custode di storie d’artigianato domestico.
E l’Abruzzo è mare, da intendersi non solo come bacino di un pescato di qualità, compresa una varietà di alghe rarissime, quanto più come quel soffio iodato che sfiora i vegetali e le uve che rappresentano questa terra apportando proprietà organolettiche uniche. Ed ecco che la possibilità di coesistenza di queste due dimensioni, la loro interazione rendono superfluo guardare altrove, invitando a esplorare con tutti i propri mezzi le profondità, che oggi Enzo Di Pasquale trattiene in maniera ancora più decisa.
Ritrova una maturità evoluta rispetto a quella di cinque anni fa quando per la prima volta ha aperto le porte di Aprudia; allora era molto più pressante l’esigenza di stupire, come se occorresse dimostrare tutto e subito. Molto più peso ha adesso il pensiero, la coerenza delle proprie scelte rispetto a una maniera di concepire la tavola, per certi versi intransigente, eppure in grado di interpretare una riflessione autentica e veritiera sulla sostenibilità, come rispettare il fermo pesca in piena stagione estiva andando contro le aspettative del pubblico; usare solo carni di prossimità da bestie allevate beatamente, affidarsi all’orto di casa propria e conservare tutti quegli ingredienti di cui abbonda ciascuna stagione, così da goderne anche a distanza di tempo, come accade per esempio con l’acqua di pomodoro fermentata “offerta” dalla copiosità del raccolto estivo.
Le circostanze, dettate dalla criticità della ricerca del personale, hanno però fatto sì che la creatività torni a concentrarsi nella persona di Enzo, che ha sempre preferito condividerla con il resto della squadra: non ha bisogno di seguire tendenze, né di rincorrere visioni particolari; il suo unico intento è di essere espressione del territorio e della materia più immediata, attraverso una freschezza di pensiero che si separa dall’univoco discorso tradizionalistico locale per quanto alcuni piatti altro non sono che elaborazioni personali di memorie vissute, trattenute nella mente e tradotte per il palato.

Il primo vero incontro con Gatti è avvenuto meno di 24 ore prima dell’evento: si erano sentiti telefonicamente e le affinità hanno suggerito l’impronta di quanto avrebbero messo in scena per l’occasione: innanzitutto libertà, senza privarsi di questo o quell’ingrediente; l’unica maniera per esprimere a pieno la naturalezza dei luoghi, degli habitat, attraverso un menu esclusivo, divisorio, ma estremamente rappresentativo dell’una e dell’altra parte. Il percorso, quindi, si è creato da sè, senza alcuno sforzo narrativo e, punto cruciale, senza alcuna anticipazione di menu per lasciare mente e palato liberi da condizionamenti, tanto è vero che in buona parte dei casi la spiegazione del piatto giungeva appena dopo terminato il boccone. La mente è così stimolata a ricercare nella propria memoria un contatto, una possibile interpretazione; la coscienza del gusto diventa un esercizio introspettivo annullando quella fastidiosa resistenza rispetto alcuni ingredienti che, altrimenti, non avremmo mai provato o pensato di trovare all’interno del piatto. Solo in questa maniera la materia è in grado di divenire funzionale rispetto all’idea del cuoco: è l’impressione totale a dominare il palato del commensale, e non il singolo ingrediente.

D’altronde su queste note si costruisce l’idea di àbitat, anzi degli habitat di Mirko Gatti, tre in totale – foresta, mare e lago - spalmati su 365 giorni l’anno, una ricostruzione millimetrica dell’ecosistema in ogni sua forma, riprodotto attraverso fuoco, foraging e fermentazioni, queste ultime subentrate per una sincera attrazione ai meccanismi della natura e alle possibilità che concede in cucina. L’ingrediente non va solo pensato per quello che è, ma trascina con sé tutti quegli elementi che lo accompagnano in un dato habitat; una sperimentazione, la sua, che si somma all’esigenza di usare integralmente la materia, per cui originano garum di funghi, bacche di sambuco non ancora sbocciate e conservate in salamoia come fossero capperi; spore che conducono allo sviluppo di texture inattese e un corredo di sapori mai sperimentati stimolando la salivazione, ma soprattutto la mente, galvanizzata dalla potenza creativa che riveste ogni portata. C’è stupore negli occhi di Mirko dinanzi a questa terra, l’Abruzzo, e camminando in riva al mare in vista della cena scorge qui un ulteriore habitat che fa immediatamente suo. Un approccio prezioso e illuminante perché invita a vedere ciò che troppo facilmente ignoriamo.
Sia Enzo che Mirko rappresentano indubbi casi di resilienza, di ambienti che non mettono a proprio agio la propria creatività e la direzione del loro pensiero gastronomico, necessario, però, perché continui quella rivoluzione coscienziosa che nasce da una passione viscerale e che, senza alcuna forma di alterigia, ha come obiettivo ultimo, un processo di acculturamento del proprio circondario, una sensibilizzazione rispetto alla necessità di non poter concepire un menu come la mera espressione della propria identità, bensì come estensione della territorialità nel piatto, salvaguardando alcune specie, utilizzando quelle infestanti, e conservando ciò che la natura offre in abbondanza.
Un menu, quindi, che non intende estremizzare come puro esercizio stilistico, ma come vedremo, come possibilità della materia.
Tutto quello che Enzo Di Pasquale e Mirko Gatti hanno provato a dimostrare in 14 straordinari passaggi che condividiamo nella nostra fotogallery.

Insalata mista e hummus di ceci
Il raccolto del giorno: foglie tenerissime di lattuga, finocchietto, coriandolo tenute insieme in un mazzetto profumato condite da un setoso hummus di ceci ben speziato

Scampi, mele e cipollotto
Lo scampo appena scottato conserva la sua grassezza dolce; accoglie in superficie del cipollotto, la sua dolcezza e un’impronta di fumo composta; entrambi si dissolvono nel tocco delicato dell’estratto di mela, dalla succosità pronunciata, acidula e fruttata, limpida

Forest Shabu
Una fetta di guanciale di cinghiale cuoce in un brodo caldo e intenso a base di funghi, in particolare orecchie di Giuda che conservano una carnosità incisiva, quasi tendente al croccante; poi il tocco legnoso del bamboo e la felce, così vicina alla freschezza di un asparago selvatico crudo. Il guanciale apporta all’assaggio una sferzata di sapidità, pepata, fresca. Tutto il gusto del selvatico in una ciotola

Koji e pesce gatto
Un “tortino” di koji, maltato, l’impasto è vicino a una segale molto concentrata, asciutta, dall’acidità pungente; assorbe tutta la succosità, in cima, del pesce gatto lardellato, grasso; un boccone rinfrescato sul finale da senape selvatica

Pelle di pollo e fegatini
Niente di più, niente di meno, se non un’esplosione di gusto e la certezza di non potersi fermare a un solo assaggio: una pelle asciutta dal gusto concentrato di pollo al forno, quel fondo appiccicoso di una teglia, e in cima una spuma delicata ai fegatini; viene trattenuta del tutto la nota ferrosa che forse avremmo voluto sentire più presente

Capriolo, ribes e maïtaké
Una battuta di capriolo condita con garum di funghi e cervo, selvatico intenso, poi subentra l’iniezione fresca, appena piccante della senape di mare che condisce la carne con un tocco più iodato: il tutto viene raccolto in una foglia di ribes nero latto-fermentata (quindi viene sfruttata la fermentazione naturale dei batteri lattici per preservare la foglia stessa) da pucciare, in ultimo, in un garum di polline

Lingua di vitello al verde di ginepro
La lingua viene scottata solo da un lato, quindi conserva una piacevole succosità, alternando parti più grasse ad altre più carnose; viene nappata da una salsa verde al ginepro, penetrante, resinosa ma anche erbacea, ricalcando i tratti di una classica salsa verde piemontese variegata con una salsa all’acqua di pomodoro fermentato

Anguilla
Su un French toast soffice, appena croccante all’esterno, burroso, ricoperto da una glassatura che si avvicina alle note del marmite, finisce un’anguilla stracotta; se ne ricavano degli straccetti, una polpa carnosa, “accesa” dal kanzuri, una pasta fermentata di peperoncino e capperi di sambuco, in realtà bacche ancora non sviluppate del tutto, conservate in salamoia

Cuore di bue, prugne e rose
Una fonduta di formaggio di malga, dalle note calde, burrose, trattiene in superficie un olio al tagete e la sua balsamicità profonda; accolgono la battuta di cuore di bruna alpina, da amalgamare, prugne fermentate e rosa canina, con il tocco sapido di un katsuobushi ancora di bruna alpina, sapido, ma anche carnoso. La texture del cuore, la sua forza gustativa, è così ammorbidita da formaggio avvolgente, il tagete condisce e sul finale, con eleganza e freschezza, giunge tutto il profumo della rosa canina

Testa di agnello
Un ricordo, una tradizione domestica, hard-core: la mamma di Enzo quando prepara le teste di agnello al forno ne mangia persino gli occhi. Lo chef di Aprudia ne fa a meno in questa preparazione, per cui svuota la calotta cranica prelevando il cervello che in parte viene fritto come una crocchetta, in parte diventa una spuma simil-foie gras leggero cosparso d’alloro, nel quale intingere la crocchetta stessa. La testa viene poi avvolta da veli di porro, delizioso, abbrustolito. Un ultimo grande piacere è spolparne gli ossi per scoprire una carne dolcissima, meno robusta in termini di gusto rispetto alle altre parti

Spaghettino, burro e cipolla
Essenzialità, umami, uno spaghettino sottile sottile, capelli d’angelo conditi da una salsa alla cipolla, intensa, che tende alla dolcezza e poi burro, cremoso; la pasta è talmente leggera e sottile da essere quasi impercettibile e lasciare tutta la scena al condimento

Pecora, alghe e pino
Pecora in tataki, dal cuore crudo, appena scottata all'esterno, tenace e delicata, assorbe il calore leggero del brodo che apporta sapidità e rotondità alle carni; ancora sapidità, a nostro avviso un po’ troppo spinta nell’insalata di alghe, wakame, lattuga di mare, alga dulce che sbilanciano l’assaggio e privano di forza la carne

Panna, fragole e rabarbaro
Sotto un cuore di panna spumosa, eterea, si nasconde un’insalatina di fragole fermentate, che custodiscono la piacevole effervescenza del frutto; poi, in cima, rabarbaro e sambuco e tutta la primavera che evocano sul palato

Nordic chocolate
Un dessert semplicemente sorprendente. Perché in realtà, di cioccolato, nel piatto non se ne vede neanche l’ombra. Non lasciamoci, dunque, ingannare dai colori: Gatti lavora un cioccolato di koji e ne fa un gelato, cremoso, un fondente timido; aggiunge poi una crema di finto cioccolato, cioè un miso d’orzo fermentato, più amaro e acido, crumble croccante, un cuore di caramello di shoyu (la salsa di soia giapponese) e pigna di pino mugo caramellato, che schiude la balsamicità di una caramellina. Melassa, carruba, ancora l’amaro di una segale decisa, ma anche torrefazione e fava di cacao: sono le impressioni che questo dessert scatena sul palato