10-09-2020
Maurizio Campiverdi, al centro, durante l'incontro di presentazione del suo libro Tre Stelle Michelin – Enciclopedia dell’alta ristorazione mondiale con la storia dei 286 tristellati dal 1933 al 2020, di Maretti Editore, al Glass Hostaria di Cristina Bowerman a Roma
Il suo esordio fu nel luglio del 1953, a Vienne, pochi chilometri da Lione, quando i suoi genitori – lui dodicenne – lo portarono a La Pyramide, chef Fernand Point, un mito. Da allora Maurizio Campiverdi (alias Maurice von Greenfields), bolognese, 80 anni nel prossimo febbraio, ha visitato praticamente tutti i ristoranti tre stelle dell’intera storia europea, gliene mancano solo tre tra quelli tuttora in attività, ossia il neotristellato Cenador de Amós in Cantabria, il Frantzén di Stoccolma, al top dal 2018, e poi The Araki a Londra, che ha ottenuto i tre macarons due anni fa ma è stato ora cancellato dalla Rossa. Ma Campiverdi è stato anche in gran parte anche di quelli del resto del mondo; in tutto, su 286 locali insigniti del massimo riconoscimento dal 1933 ai giorni nostri, lui ha cenato o pranzato (spesso più e più volte) in 194, oltre due terzi. Si ripromette di accrescere ulteriormente questi dati già clamorosi, che ne fanno uno dei primatisti assoluti.
Come ha fatto? Ossia: quale impegno e costanza ci vogliono per conseguire questa sorta di record che ha poi dato origine alla pubblicazione? «Avevo un padre e soprattutto una madre gourmet, e questo ha aiutato parecchio».
Fernand Point
Fu un grade avvio, proseguito sempre su alti livelli. O sbaglio? «Non c’è dubbio. E ho tenuto il ritmo a lungo. Fino al 2007 avevo fatto tutti, tutti i tristellati che fossero in attività al mondo. Poi la Michelin s’è messa ad aprire nuove edizioni, San Francisco, Las Vegas, Los Angeles, Shanghai, Macao, Hong Kong, Bangkok, Singapore, Taipei, Seoul, Tokyo, Chicago, Rio de Janeiro, San Paolo, Canton, Washington, Pechino, Kyoto, Osaka… Difficile star dietro alle novità».
Campiverdi autografa il libro
Quale evoluzione della cucina ha incontrato in quasi 70 anni di scorribande golose? «A me l’evoluzione sta benissimo, ma una cosa non riesco a sopportare: il menu degustazione fisso, la dittatura dello chef. Io parlo di culinary exercises: sono dimostrazioni di abilità culinaria, ma non ristorazione. Odio quando mi piace un assaggio, chiedo il bis e mi guardano quasi fossi un alieno. Aggiungo: se il degustazione è venduto a 390 euro, come capita a Parigi, mi faccio delle domande. Ne vale la pena? Mi sembra una cifra esagerata».
È una pratica – quella della scomparsa del menu alla carta - che si sta diffondendo molto. Non la sopporta proprio? «No. Ma non è cosa nuova, eh… Ricordo Casali a Cesena, esiste ancora: fu credo l’inventore della dittatura gastronomica, negli anni Cinquanta. Dava ai suoi clienti una cartolina prestampata con scritto più o meno: “Pranzato da Casali, subita la dittatura gastronomica, la vita è bella, tanti baci”, e loro la firmavano contenti. E aggiungo la Taverna degli Artisti a Revere, Mantova, di Angelo Berti, col suo famoso pranzo sul Mantegna del 1960. È a sua volta ancora esistente. E poi Guido Alciati a Costigliole: non si poteva cambiare il menu di una virgola. Chiesi un bis di cardi gobbi, mi incenerirono».
Per esempio? «In questo momento ci sono 28 tristellati in Francia, 48 nel resto d’Europa, 15 negli Stati Uniti, 17 nelle città asiatiche, escluso il Giappone che ne ha 22. In tutto 130. Troppi. Il vertice di una piramide qualitativa deve essere un po’ appuntito, altrimenti diventa un altopiano».
Non tutti questi 130 “valgono da soli il viaggio”, come da definizione ufficiale dei tristellati? «Dovrebbero essere la metà. Chi legge le mie schede su questo libro capisce quali siano per me quelli che potrebbero accontentarsi di due stelle, simbolo peraltro già di suo molto prestigioso. È un livello che già fa notare la sua differenza».
L’Italia ha undici tristellati, dei quali 6 abbastanza recenti, grazie a due triplette, una nel 2012-2014 (Osteria Francescana-Piazza Duomo-Reale) e l’altra nel 2018-2020 (St.Hubertus-Uliassi-Bartolini al Mudec). Undici sono troppi o troppo pochi? «È la quota giusta, siamo quelli più in regola di tutti, tenendo conto che per me in generale i tristellati dovrebbero essere la metà come detto. Secondo me, degli undici, solo due sono quelli leggermente sopravvalutati, ma quattro altri nostri ristoranti meriterebbero o avrebbero meritato le tre stelle, eppure non le hanno, o non le hanno avute».
Quali sono? «Il primo è il Lido 84 di Riccardo Camanini, che di macaron ne ha addirittura uno. Poi c’è la Gourmetstube Einhorn, bistellata vicino a Vipiteno. Tra gli italiani che qualche anno fa avrebbero meritato il massimo riconoscimento indico sicuramente il San Domenico di Imola e il Vissani».
La Michelin è sempre troppo filo-francese? «Dobbiamo riconoscerle di essere riuscita a fare delle tre stelle un simbolo ambito e prestigioso nel mondo. Continueranno ad avere molto valore, con una sola insidia…».
Quale? «Devono tenere conto della crescita della 50Best, che è diventata un fenomeno di fama internazionale, con il vantaggio di fare una classifica, il che funziona molto a livello di comunicazione. Dietro a 50Best c’è San Pellegrino, cioè Nestlè, multinazionale da 80-90 miliardi di euro di fatturato, contro i 25-30 della Michelin, intendo i pneumatici. Insomma, per la Guida Rossa è un pericolo grosso».
Carlo Passera di Identità Golose, che ha moderato l'incontro; l'autore Maurizio Campiverdi; l'editore Manfredi Nicolò Maretti
Ben 286 i tristellati in tutta la storia della Michelin, ma solo 12 chef donne (tre in Italia). Come mai? «Me lo sono chiesto molte volte. Credo che le donne siano troppo generose, non sanno rinunciare alla famiglia. Lo chef è un lavoro estremamente impegnativo, con due esami al giorno, pranzo e cena».
Nel 1959 vengono assegnate per la prima volta le stelle in Italia: 81 locali conquistano un macaron. Di questi, ne rimangono in attività solo 4. Non sappiamo dare continuità all’impresa ristorativa? «È un dato incredibile ma vero. Anche i nostri due primi tristellati non ci sono più. Questo perché sono tutte imprese basate sulla singola persona, con locali spesso in affitto e quindi senza un patrimonio immobiliare; quando lo chef viene meno non ha successori adeguati. Penso a Fini a Modena, locale tipico della borghesia locale: fin quando è stato di proprietà del cavaliere del lavoro Fini, è andato bene. Morto lui: discussione tra gli eredi, non si mettono d’accordo, chiusura in attesa di un compratore, tutto finito. Una miniera d’oro perduta. Che vergogna».
La pizza simbolo di Identità Golose 2018, realizzata metà da Renato Bosco, metà da Franco Pepe
E perché questo riconoscimento non arriva? «Perché sono italiane».
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classe 1974, milanese orgoglioso di esserlo, giornalista professionista dal 1999, ossia un millennio fa, si è a lungo occupato di politica e nel tempo libero di cibo. Ora fa l'opposto ed è assai contento così. Appena può, si butta su viaggi e buona tavola. Coordinatore della redazione di identitagolose.it e curatore della Guida di Identità Golose alle Pizzerie e Cocktail Bar d'autore. Instagram: carlopassera
Stella Michelin, gioie e dolori
Casa Perbellini - 12 Apostoli è il tre stelle italiano numero 14. Confermati tutti i 13 già insigniti lo scorso anno del massimo punteggio