Esauriti gli intrecci della galassia che sta costruendo Gaggan, concentriamoci sul pasto che l'indiano, numero uno in Asia da 3 anni, mette quotidianamente in scena nel ristorante sopra a Lumphini Park, nel cuore di Bangkok.
Nel 2010, Gaggan Anand colonizza uno splendido edificio in legno con un solo scopo: riscattare la cucina indiana e l’immagine sociale dei cuochi indiani nel mondo. «Quando mi dicevano», ripete da anni, «che la nostra tradizione è troppo povera per ambire alle vette del fine dining, I got completely pissed off (m’arrabbiavo di brutto)». È per assolvere a questa missione che entra in stage al Bulli nel 2009: «Ferran Adrià ha cambiato completamente la mia vita e il mio modo di essere cuoco», racconta.
L’eredità tecno-emozionale è evidente nel menu attuale, una sequenza mozzafiato preordinata di 25 piatti bulli-style: c'è il lato entertaining (la musica sparata dagli amplificatori Marshall) mai fine a se stesso, le esplorazioni di consistenze inedite, l'abbondante ricorso a maltodestrine, sferificazioni e alginati e la studiata successione di intensità crescenti. Come essere a Sitges 6 anni dopo la chiusura, ma a un continente di distanza.
Naturalmente, cambiano i protagonisti del film. Qua non si sferificano olive né si cavializza alcunché ma si riscrivono i connotati di preparazioni tradizionali del Subcontinente come idly sambhar, vindaloo, samosa, sheek kebab… (i dettagli sono tutti nella fotogallery). «Un patrimonio inesplorato nell’alta cucina», spiega orgoglioso, «un complesso di centinaia di ricette riviste che conta su almeno 36 tradizioni diverse, nate dall’umidissimo Tamil Nadu del sud alle vette dell’Himalaya, migliaia di chilometri più a nord».

Gaggan Anand è un anche grande cuoco di cucina tradizionale indiana. La prova è in questa tavola. Da sinistra a destra, in senso orario: papadam, riso, chutney di cocco, donuts di lenticchie fritte, curry di pesce, cagliata di riso
Un
Indian pride che si fa beffe dell’imperialismo inglese: «Il curry non esiste, è un’idea che hanno importato i britannici, venuti qui a rompere le scatole perché volevano l’oppio, nel Sedicesimo secolo. Importarono il tè, cominciarono a costruire le fabbriche, distrussero il nostro patrimonio e cominciarono a vendere prodotti inglesi con l'etichetta 'made in India'». Un registro polemico e sacrilego, arricchito da abbondanti citazioni e ricorsi alle iconografie induiste, buddiste e all'universo thai, il paese che gli dà dimora.
Ma è il Giappone l’ultima, vera ossessione di
Gaggan. Appena può sale su un aereo diretto a Tokyo, prende lo Shinkansen in direzione Hokkaido a nord o Fukuoka a sud e si fa anche 5 pasti al giorno, strabiliato «da una cultura del prodotto che non ha eguali al mondo, in un paese con stagioni ben scandite», con tutto il rispetto per la monostagione e la biodiversità limitata della Tailandia.
Proprio a Fukuoka,
anticipavamo, aprirà il suo nuovo ristorante
Gohgan, nel 2021. «Intanto mi godo il picco e la fama», conclude, «pronto a riscrivere tutto daccapo». La
Progressive Indian Cuisine, il suo più grande contributo all’alta gastronomia contemporanea, sarà dunque presto un lontano ricordo.
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Gabriele Zanatta