Ci sono cuochi che non cambiano mai, fedeli a una linea di cucina decisa agli inizi del percorso e prolungata in eterno con un tratto sordo a incertezze o appunti. Poi ci sono quelli che lavorano ascoltando, interrogandosi sulle proprie rotte e orizzonti. Sono professionisti che intendono la maturità come un traguardo sempre da tagliare, messo continuamente a fuoco dall’esercizio del dubbio.
Luigi Taglienti appartiene alla seconda categoria. Sono passati 3 anni esatti dalla nostra ultima visita ed è come avere a che fare con un altro professionista. Ci s’intenda, la firma è sempre molto rigorosa e personale. Ma il savonese ha fatto un passo indietro per farne uno avanti, arretrando personalismo e tecnica per lasciare il ruolo di frontman, di attore protagonista, al gusto, un passo essenziale che tanti dimenticano di staccare.
I piatti in carta al Lume – un progetto molto ambizioso di cui demmo cenno al varo del giugno scorso e già meritevole di stella Michelin - sono meno puliti ed essenziali rispetto ai tempi in cui il 37enne era chef alTrussardi. Ora devono prima di tutto piacere e non stupire: «Se un tempo mi interessava mostrare che ero bravo», ammette egli stesso la conversione a fine pasto, «oggi per me conta di più conferire i giusti sapori ai giusti ingredienti. Fare piatti buoni». Hai detto niente. Il compito riesce già molto bene, intanto perché qui in via Watt «è come se cucinassi a casa mia». Una naturalezza dell’intorno che evidentemente prima gli era preclusa.

Luigi Taglienti nella cella delle frollature. Tutta la selvaggina in carta al Lume è frollata al ristorante. Nella foto, i germani reali che ora il cuoco prepara arrosto accanto a un nido di pappardelle al tartufo nero
Soprattutto, oggi c’è un nuovo ospite che dà ricchezza ai suoi piatti: le salse. In piazza della Scala queste erano sempre oggetto di studio ma poi centellinate nel piatto: «Ne mettevo appena qualche goccia». Più spesso, rimanevano proprio del tutto nelle casseruole «perché pensavo che il vero cuoco fosse quello che dimostrava di poterne fare a meno. Ma quanto mi sbagliavo». Oggi la direzione è quella opposta: «Sono sempre più convinto che non si possa fare una grande cucina senza grandi salse. Infatti dedico gran parte del mio tempo a prepararle. Tanto che, se non facessi lo chef tout court, vorrei fare il
saucier a tempo pieno». Una figura trascurata se non dimenticata quella del "cuoco delle salse". Eppure fondamentale nella progressione dell’alta cucina da
Marie Antoine Carême – l’uomo che le codificò per primo alla fine del
Settecento - in poi.
Al
Lume, oggi
Taglienti prepara 12 salse diverse e non sono mai fondi versatili o universali: ogni piatto ha la sua salsa ad hoc, che si tratti del fondo bianco del risotto (ora in carta c'è quello con curcuma pepe nero e alloro, magnifico) o della salsa alla mugnaia, tradizionalmente applicata a un pesce ma qui unita al pollo di Bresse. Il ragazzo ricava le ricette delle salse spulciando dentro a rari volumetti di cucina francese dell’Ottocento, «perché non c’è più nulla da inventare». Si può tuttavia lavorare sulle preparazioni classiche, rendendole più lievi perché la cucina di oggi chiama molta più leggerezza. Soprattutto, le salse non devono soverchiare l’alimento portante ma solo veicolarne le diverse parti. Unificare l’insieme con eleganza.

NON SOLO CACCIA. Lo Spaghetto al cappuccino di funghi di Taglienti, blockbuster di Lume. E' un piatto molto gustoso perché la pasta è rifinita nel jus di vitello, soia, olio aromatizzato e confit di limone. Il cuoco è savonese: il pesce recita sempre un ruolo importante nella carta del ristorante
Il cuoco è attento a utilizzarle tessendo identità tra le diverse parti dello stesso piatto, ad accelerare i sapori o ingentilirli. Sono condimenti sussurrati o prepotenti che danno risultati splendidi sui piatti di cacciagione, a nostro avviso il grande punto distintivo del ristorante. C’è ad esempio la
poivrade che va in accompagnamento al filetto di sella di capriolo; la salsa al fegato grasso che accorda la magnifica pernice rossa con verza brasata, cotta al vapore e arrostita alla plancha. E quella che arricchisce lo spettro della quaglia rosolata in tegame all’italiana, un secondo retrocesso ad antipasto che la dice lunga sulla febbre attuale del ragazzo per la selvaggina.
Poi ci sono salse che possono diventare vere e proprie “madri” come quella, nobile e classicissima, utilizzata per la
Lièvre à la royale: le ossa sono separate, messe a marinare per una notte con spezie, verdure e vino. Ridotta la salsa, il cuoco lava le ossa e le tiene per bagnare un secondo animale. Una matrice che si arricchisce di lepre in lepre. Magia.