Arrivi a Kobe e ti sorprendi perché, al posto di una mandria di manzi wagyū in libertà per i campi, vedi pascolare un milione e mezzo di abitanti tra le vie ariose di una città moderna e rilassata. Molti lavorano nell’industria dell’acciaio e per vincere l’alienazione tirano di golf su improvvisati green chiusi da enormi reti che svettano su fabbriche e tangenziali. Si arrampicano tra i fumi delle ciminiere, vorticosi per la brezza che arriva dal mare. La rush hour è ben poco “rush”: ci si muove composti, in un clima tranquillo perché imposto dalle dolci colline verdi della prefettura di Hyogo alle spalle e dal porto enorme aperto sul Pacifico.

Ishiyaki rovente: il sasso a sinistra è stato scaldato su fiamma per un'ora. Nel piattino a destra, chele di granchio e scampi marinati con base sakè e acqua di mare. Per cuocerli, è sufficiente poggiarli per qualche secondo sulla pietra
E sì che nel 1995 la città fu devastata da un
terremoto epocale, ma un ventennio dopo non resiste più alcuno sfregio, solo quello che ricordano le fotografie ingiallite che
Marie Udono estrae del cassetto. Appena prima ci aveva mostrato gli abbracci sorridenti di
Michael Jackson e
Grace Kelly al padre
Seijiro, cuoco ancora oggi.
Marie è il volto gentile e in kimono del ristorante
Matsunoya. La calamità azzerò la sede aperta nel 1917 e costrinse la famiglia al trasloco. Ma ora la cornice è semplice e spettacolare: un centinaio di sobri coperti e arredi in legno su più sale, al nono piano del grattacielo di Kobe Kotsu a downtown.
Se vi hanno martellato la testa con la venerazione dei Giapponesi verso qualsiasi forma di cibo, fareste bene a convalidare il pregiudizio coi piedi scalzi infilati sotto al nostro
tatami, mentre del
Sakè con sciroppo di pere scivola nel bicchiere e una cupola di ghiaccio (
kamakura) forata dal lume di una candela dà riparo a un sashimi di orata (
tai). Sul letto freddo ci sono anche due foglie di
shiso e un ramoscello con fiorellini di prugna (
ume). Noi strisceremo gentilmente il pesce sul piattino della salsa di soia e
yuzu accanto, in un crescendo di beautitudine appena cominciato.

Marie e Seijiro Udono, quarta e terza generazione del ristorante Matsunoya di Kobe, aperto 99 anni fa
Nel menu
kaiseki, la cura che i cuochi mettono nel disporre il pollo tra le verdure di un
sukiyaki (pentolino alla fiamma) o nell’affondare i funghi
shijtake e i
somen (noodles) sul fondo della zuppa (
nabe) è la stessa con cui ti avevano donato, inchinandosi, il biglietto da visita stretto tra due pollici e indici: vogliono accertarsi che l’incontro ti lascerà qualcosa, una traccia che affonda, un’eredità che nessuna folata di vento potrà mai spazzare.
Tanti piccoli segni non scritti, quelli che colse bene
Roland Barthes, assaggi costruiti attorno agli ingredienti di Hyogo, una provincia che lavora da millenni su certe materie prime che faticavamo a immaginare:
Asakura sansho (uno splendido pepe crudo dalle anestetiche note citriche),
miso bianco e rosso, i fagioli rossi
Adzuki, le dolcissime cipolle rosse dell’isola di
Awaji con una salsa di sesamo spennellata sopra, i cavoli cinesi, i bianchetti marinati nella salsa di soia.

Sukiyaki (pentolino su fiamma) con pollo, cipolla, verdure e mirin (sakè dolce)
Tokyo è lontana abbastanza (500 e passa chilometri) per tenere a distanza le mode inautentiche. E per lasciare che gli
Udono mettano in tavola un
tenpura nato nella notte dei tempi: loto, funghi
shiitake, asparagi e gronghi impastellati nell’acqua gelida, farina e nuova; olio di sesamo e olio di cotone che sfrigolano nella padella davanti al tavolo, alimenti scioccati appena prima di farsi dorati. Che bontà.
L'epilogo arriva col freddo/caldo di due zuppe: una prima
soba fredda con arrosto di anatra, bottarga di tonno, yuzu e somen e una seconda rovente - classica e perfetta - di
miso, un ingrediente fondamentale per la grammatica gastronomica giapponese. Ci torneremo.
1. continua