Chiara Lungarotti, amministratore delegato di Lungarotti, si illumina condividendo ciò che viene racchiuso in una parola, anzi in un numero, simile a una combinazione capace di schiudere il senso di un’identità e, quindi, della felicità: 1962. È il progetto che l’azienda umbra crea per iniziare un nuovo ciclo che sappia omaggiare la tradizione parlando al futuro.
Lungarotti decide di presentarlo a Milano alla trattoria Masuelli, il che assume quasi il sapore di una sfida; una sfida buona che porta i bagliori gentili, i profumi, lo stile calmo «della nostra Umbria», come ripete Chiara, nella metropoli incalzata da traffico e impegni. Un mantra che gentilmente si insinua in noi e ci fa dimenticare l’orologio. Si riesce così a ritagliare un’isola tra queste mura, con due guide: Rubesco 62 e Torre di Giano 62. Sono tre i piani su cui si declina questo nuovo racconto: gustativo, visivo, comunicativo.

«Abbiamo buone possibilità di sviluppo - osserva Chiara Lungarotti – e quindi abbiamo dato via a un piano triennale che vede l’azienda svolgere un processo, passo dopo passo… Ci piacerebbe ovviamente realizzare tutto subito, ma perché la crescita sia solida e duratura, bisogna compiere un passo alla volta e il primo è proprio quello del progetto 1962». Per gettare le basi del futuro e vivere a fondo il presente, si è afferrato come un talismano quel numero estremamente significativo che si riferisce all’anno in cui è iniziato il secondo ciclo di vita dell’azienda.
La famiglia si è stabilita nella Media Valle del Tevere già alla fine del diciottesimo secolo: la terra è la propria linfa che scorre attraverso vino, olio e altri prodotti. Nel 1962 nascono, appunto, Rubesco e Torre di Giano, mentre Giorgio Lungarotti coltiva la propria visione e porta l’azienda sui mercati nazionali ed internazionali.
L’imprenditore scompare nel 1999 e la generazione successiva si dedica al terzo ciclo con reimpianto dei vigneti, ammodernamento delle cantine e apertura verso pratiche sostenibili. Ma non basta, non ancora: l’anno scorso – mentre la conduzione si fa fortemente femminile, con mamma Maria Grazia, direttrice della Fondazione Lungarotti Onlus, al suo fianco l’altra figlia Teresa - si vuole avviare il quarto ciclo.

Chiara Lungarotti, amministratore delegato della società
La missione è evidenziata ancora una volta: «Rallentare la vita delle persone, portando l’Umbria e il suo stile di vita nel mondo». Si vogliono offrire vini di luogo, dunque profondamente territoriali. Vengono da lontano nel tempo, ma lontano vogliono andare, come i due presentati a Milano: «Rappresentano la spina dorsale della nostra azienda, un guardare alle nostre radici, ma con un racconto contemporaneo».
È anche un discorso di famiglia, dove quest’ultimo termine è ampio e abbraccia anche i collaboratori.
Ma che cosa significa uno stile contemporaneo? Nella comunicazione, «un approccio più emozionale e soprattutto più narrativo del racconto di quello che avviene giorno per giorno: lo story living». Non è sufficiente conoscere l’Umbria per le sue bellezze: è lo stile di vita che trasmette a doversi riversare su chi si avvicina ai suoi prodotti.
«Quello che ci consente - rammenta Chiara - di tornare a casa tutti i giorni a colazione, lavorare e poi stare con le nostre famiglie; la sera usciamo e ci sediamo al caffè in piazza o per il corso del paese… a chiacchierare e a stare in serenità».
Nel calice ciò comporta «vini contemporanei, freschi, immediati ma che portino le caratteristiche dei nostri suoli, del nostro clima, ma soprattutto dei nostri vitigni».
La stessa etichetta traccia un’immagine che guarda le origini salpando, però per il mondo.

La cantina Lungarotti di Torgiano
Varietà storiche indigene, che riescono a esprimere l’identità del territorio, in continuità con il passato. Questo con Rubesco e Torre di Giano e c’è sintonia con la trattoria milanese che offre un’uguale trasposizione culinaria, un ritorno a un pasto carezzevole che è un prendersi cura. Per chi è vegetariano, l’esplosione di Puntarelle è irresistibile, come con la Pasta e fagioli.
Si segna il passaggio tra i due vini, scandito con maestria e passione da Marco Rossi, export e marketing manager.
Torre di Giano - Bianco di Torgiano Doc Umbria, viene definito così, un «bianco dinamico e contemporaneo che guarda alle origini - prosegue -, a un tempo in cui i vini bianchi giocavano tra facilità di beva, materia e tavola senza mai nascondersi, raccontando la vita lenta al ritmo della natura e delle stagioni».
In questa zona, Trebbiano e Grechetto sono i naturali detentori di identità. Si vendemmia di solito nella prima metà di settembre, un incontro di esigenze, quelle aromatiche del Grechetto e la freschezza del Trebbiano. Qui il suolo è argilloso e sa mettere da parte significative riserve idriche. Vinificazione in acciaio, note di frutta fresca a partire dalla pesca bianca e fiori d’acacia avviano alla degustazione. La chiusura sapida è il tocco che decreta il potere avvincente di questo vino.
La contemporaneità affiora dall’esaltazione della parte del frutto, in particolare in ingresso, ma anche in quella maggiore forza che è materia e quella sapidità conclusiva, che vuole allontanare il momento del congedo.
Poi a tavola arriva il Rubesco 1962 - Rosso di Torgiano Doc Umbria, e nel corso della nostra conversazione è interessante notare la sua evoluzione. È vero che il nome talvolta rivela chi lo porta, anzi in questo caso la sua stessa esistenza è chiarificatrice. È tra i primi vini rossi italiani ad avere avuto un nome e Giorgio Lungarotti si fece aiutare dalla moglie Maria Grazia nella scelta, ricorrendo al latino rubescere, vale a dire un arrossire piacevolmente che riporta alle sensazioni insieme a tavola.
Il Sangiovese è il biglietto da visita di questo territorio, ne racconta i terreni situati in zone elevate e il 62 mette in chiaro quell’avvio ufficiale. Verso la conclusione di settembre, con le uve in completa maturazione, si procede con la vendemmia. La terra parla, la cantina sussurra: giusto quelle mosse che servono a preservare vigneto e annata. Si parte con la vinificazione in acciaio, accompagnata da breve macerazione sulle bucce, mai oltre i 20 giorni, quindi passa in botte per dodici mesi circa. Anche qui cogliamo la freschezza, ma anche una saggezza che non è austera. Gli aromi nel bicchiere danzano in variazioni sul tema, partendo dalla ciliegia alla violetta. Qui si rinnova la sensazione della formula magica. «Sono vini che non sono pensati per i lunghi invecchiamenti – riflette Marco Rossi - ma di fatto dall’espressione del territorio e dal nostro modo di lavorare, finiscono per reggere il tempo in maniera incredibile».
Il tempo, ancora una volta, affiora nella sua potenza di valore.