C’è una nuova tendenza, che caratterizza sempre più la nostra alta cucina: è la riscoperta del patrimonio gastronomico “classico” italiano, sorta di eredità antologica – attributo, questo, che non a caso abbiamo usato anche poche ore fa, nel raccontare i propositi di Niko Romito per i suoi nuovi ristoranti nei Bulgari Hotel. Sembra quasi che alcuni dei nostri migliori chef – quelli con le vibrisse più sensibili – percepiscano come, dopo aver appreso grandeur francese, tecniche spagnole e lezioni dal Nord, ma anche l’uso delle spezie orientali e i contrasti gustativi sudamericani, ricercassero (finalmente!) una sintesi che tenga conto di tutto questo, ma soprattutto sia un parto italiano. E comprendessero dunque come l’originalità tricolore nel fine dining contemporaneo – dunque il suo apporto - non possa trovarsi se non ricucendo lo sbrego che si è prodotto negli anni tra la stessa alta cucina, influenzata da tutto quanto abbiamo appena elencato e molto altro ancora, e il prodotto più caratteristico e costitutivo della tavola nostrana: che è la trattoria, i piatti dell’oste, legati a loro volta a quelli delle eterne mamme e nonne della Penisola.

Massimo Bottura, La parte croccante della lasagna (foto Brambilla-Serrani)

Matteo Baronetto, due versioni di finanziera, com'era e com'è secondo lui, al Del Cambio di Torino
Pensiamo ad alcuni capolavori di
Massimo Bottura, che in fatto di ri-elaborazione del concetto di cucina italiana vanta una primogenitura:
Compressione di pasta e fagioli («Abbiamo preso una ricetta di famiglia per rivoluzionarla») è del 2002,
La parte croccante della lasagna di un decennio successivo; in entrambi, c’è l’idea che attualità e prospettiva stiano anche nel voltarsi indietro, donando nuova linfa ai piatti di casa, o di osteria. Abbiamo già citato
Romito. Ma si potrebbe proseguire, con
Matteo Baronetto ad esempio.
Ora Luigi Taglienti, al suo Lume milanese, fa un passo ulteriore: postula che proprio in questo stia la nuova avanguardia, tanto da dedicarvi un inedito percorso di degustazione, appena presentato.
«Oggi so per certo che è in Italia e da nessun altra parte che voglio rimanere per innovare la mia cucina di continua nuova energia, dissotterrando quella sapienza antica custodita dalla mamma, dalla nonna, dall’agricoltore, dall’allevatore, dal pescatore, grazie a una terra e a una conoscenza che applicate al prodotto e a tecniche ancestrali sono oggi in termini internazionali quanto più autenticamente innovativo ci sia da offrire».

Taglienti e le sue carte, letteralmente, nel gioco della nuova cucina italiana
Per
Taglienti le carte che l’Italia deve e può giocarsi per incarnare una nuova avanguardia gastronomica vanno ricercate frugando nel baule del nostro passato, o nel ricettario della vecchia zia defunta, finito ormai in soffitta. Non dunque, la riproposizione di ricette autoriali e storiche, da
Apicio in poi (lavoro nel quale è impegnato ad esempio
Riccardo Camanini, altro
maître à penser della culinaria italiana contemporanea. Leggi anche:
Camanini alle origini della cucina italiana), ma una sfida diversa, altrettanto ambiziosa, da far accapponare la pelle: rileggere i saltimbocca alla romana, i capunet, la frittura di pesce, la torta salata, il tocco genovese… Fornendone una convincente versione odierna.

Lo chef serve la sua idea di Lasagna tradizionale alla bolognese
Tentativo coraggioso, perché la rilettura non solo si scontra inevitabilmente con la qualità gastronomica intrinseca della versione tradizionale, ma anche con la memoria palatale di ciascuno. Per capirci: le lasagne della mamma è un modello difficile da eguagliare, se non superare, non tanto e non unicamente perché erano buone di loro, ma anche poiché erano proprio
della mamma, ossia immortalate nell’eredità culturale e persino emozionale, profonda, di ognuno. Mitiche o quasi, insomma.
«Trattare le nuove tecniche ritrovandone traccia nel solco della nostra storia, allargare lo sguardo e riappropriarci di quello che già ci apparteneva, il nostro patrimonio condiviso, lasciando finalmente entrare i gusti che sono propri del nostro palato e della nostra memoria attraverso il corretto processo di evoluzione. Amo re-disegnare i connotati del già noto pur sempre rispettandolo, in maniera austera ma essenziale, semplice ma mai banale; sapori sconosciuti e al tempo stesso rievocativi del passato, che si esaltano a vicenda».
Taglienti è un timido-audace. Tira dritto per la propria strada, senza curarsi che sia irta di ostacoli. Così ha deciso di affiancare ai due percorsi degustativi che già propone al
Lume (quello creativo e poi quello più classico, dedicato a Milano) anche quest’ultimo, nuovo, che vi abbiamo descritto. Ne ha accennato per la prima volta a
Gastromasa, il congresso turco di alta cucina che si è tenuto a Istanbul il primo dicembre scorso, noi eravamo lì ad ascoltarlo: «Mi riapproprio di un patrimonio familiare che si è a lungo trasmesso, ma ora si tende a dimenticare, è ormai in disuso – aveva detto, cucinando per l’auditorio una straordinaria
Quaglia all’italiana – Ritorno quindi all'utilizzo dell’italianità, della casseruola, per dire. Mi riprendo il nostro tempo passato, le tecniche antiche della mia bisnonna. Recupero il soffritto, le verdure con l’olio e lo spicchio d’aglio, il battuto di capperi, il pomodoro secco, il fuoco lento», i passaggi preliminari, peraltro, perché si possa poi arrostire la succitata quaglia.
In tutto ciò,
Taglienti ha eletto come proprio feticcio il limone. Perché, in fondo, è la versione italiana
senza tempo delle acidità contemporanee tanto
à la page, che derivino da fermentazioni nordiche, lime sudamericani o yuzu giapponesi. E’ territoriale, moderno e antico nel medesimo tempo. Dice lo chef: ci sono tanti nostri sapori che rischiamo di perdere. Sono gli aromi primordiali della cucina italiana, che oggi è troppo influenzata dal mondo esterno, tanto da vedere sempre più diluiti i propri connotati identitari. Noi vogliamo reagire: prendendoli e attualizzandoli.
«Attraverso l’apporto dell’acidità e l’utilizzo del limone, che è diventato il mio marchio a fuoco, sono riuscito nell’intento di ricreare sfumature olfattive ed emotive contestualizzando la tradizione alla contemporaneità, regalando all’esperienza un’alternanza di sensazioni tattili e gustative che conferiscono brio, velocità, forza e freschezza ai miei piatti. Vado alla scoperta di un concetto nuovo che intendo sostenere in tutto e per tutto, sul quale lavoravo inconsciamente da tempo e che oggi mi appare finalmente chiaro, un linguaggio comune, che è la memoria dei sapori non solo della mia regione, ma di tutto il Belpaese, in termini di conoscenza e memorabilità gustativa. Non è dunque solo cucinare: è un tesoro intero da dissotterrare, facendomi carico di un dovere etico, culturale e sociale, cioè quello di illuminare quanto si sta dimenticando a sottolineare il concetto che anche la cucina e soprattutto la gastronomia sono cultura, con tutto il loro bagaglio di storia, di tradizione, di forte incisività sulla struttura sociale».

Un lavoro improbo, come si può ben intuire, perché si propone di operare su riferimenti neanche ben definiti, che attingono a volte – infatti – al campo delle pure sensazioni: «Ricordi, profumi, sapori, memoria. Da Nord a Sud». Con riferimento costante al
fil rouge delle cucine italiane: il quale a ben vedere più che nei piatti e nei prodotti, così cangianti, si ritrova nella nostra istituzione gastronomica costitutiva, la trattoria, come abbiamo già scritto.
Nella nostra fotogallery, gli esiti. Che sono a volte indiscutibilmente fertili, altre volte passibili di generare discussione. Perché Taglienti è uno chef dallo stile tranchant (tagliente, appunto), ossia rigoroso, mai piacione, per nulla incline al compromesso. Lui non ama pareggiare, è uno Zeman della cucina. Vince o perde, o lo si ama, o lo si odia: a maggior ragione in un progetto come quello che vi abbiamo appena raccontato.
Taglienti scommette su sé stesso. Provando a delineare un’idea (o anche solo una pratica) di nuova tradizione italiana.