La rinascita di una nazione o di un popolo parte dal cibo. E non lo diciamo così per dire. Ho vissuto infatti per 5 giorni a ritmi ininterrotti tra le strade e le case della gente della Bosnia Erzegovina, e lo posso affermare senza rischio di smentite: in un Paese che continuiamo a ricordare per i dolorosi avvenimenti di venti anni fa, il cibo rappresenta il simbolo più autentico di un ritorno alla normalità, alla convivialità. Alla vita.
Davanti al forno più antico di Sarajevo, vicino alla moschea di Gazi Husrev-beg, chi è in fila per comprarsi le kifle calde non appartiene ad alcuna etnia, fede o partito politico. Il rito quotidiano di questi piccoli panini spezzafame - se ne potrebbero mangiare a decine senza fermarsi - si consuma ogni giorno, a tutte le ore, indipendentemente dagli accordi di Dayton. Ed è difficile trovare posto nella buregdžinica migliore della città, quella davanti al museo ebraico, dove tutti (nessuno escluso) convergono per l’immancabile burek con yogurt. È lo street food più diffuso a Sarajevo, ma anche il più buono stando alla guida Lonely Planet che ha incluso il burek bosniaco, una girella di pasta fillo ripiena di carne macinata speziata, nell’annuario 2012 del “World’s Best Street Food”.

Burek, girella di pasta fillo ripiena di carne macinata speziata, snack popolare bosniaco
E poco ci stupisce scoprire che, in una nazione in cui la birra la fa da padrona (e in cui vieni “identificato” a seconda di quale bevi), il vino ti presenta invece
Osman Pirija, agronomo musulmano che negli anni Sessanta diede grande impulso alla viticoltura compresa tra Stolac e Mostar. O la
Cooperativa di Daorson, nata da un progetto del ministero degli Affari esteri con il supporto delle Ong
Oxfam Italia e
Cefa, i cui soci - 8 in tutto - sono serbi, bosgnacchi (bosniaci musulmani) e croati. O dei monaci ortodossi del Monastero di Tvrdoš, che oggi producono uno fra i migliori vini da uve autoctone Vranac e vantano importanti riconoscimenti internazionali.
Li hanno chiamati invece “lamponi di pace”, i prodotti raccolti dalla Cooperativa Insieme di Bratunac, una compagine di donne serbe-ortodosse e musulmane: vedove, orfane e vittime dei crimini di Srebrenica, oggi sono semplicemente imprenditrici, operaie, agronome e contadine che s’impegnano per il bene comune. Né ci sorprende se l’affinatore di prosciutto di Liubuški, nell’Erzegovina croata, va ad acquistare i prosciutti fino al nord della Bosnia, nella Repubblica Srpska. «Perché», ci confida, «il cibo, quello buono, non conosce frontiere». E queste sono invisibili: te lo devono segnalare mentre viaggi perché non le riconosci: quello che ti arriva all’istante è il rapporto strettissimo tra la gente e la terra che lavorano.
1. continua