Il suo nome non fa ancora parte del novero degli star-chef, non c’era molta gente in sala ad attenderlo: ed è stato un vero peccato, perché chi ha preso parte allo showcooking può ben dire d’aver assistito a una dimostrazione d’alto livello. «Voglio far sì che la cucina creativa sia alla portata di tutti» è il credo del cuoco ciociaro, classe 1982, nativo di Pontecorvo («La patria di uno splendido
peperone dop» fa notare a chi, come il sottoscritto che introduceva la performance dal palco, se n’era dimenticato) ma da tempo di stanza a Roma e dintorni, prima in illustri locali stellati (
Convivio Troiani,
Glass Hostaria,
Tordo Matto…) e poi nella sua
Osteria Fernanda, che ha da poco cambiato sede e accresciuto le ambizioni.
La sua stella polare è, ovviamente,
Salvatore Tassa: e non è peregrino pensare possa esserne il futuro erede, magari persino con maggior fortuna.
[[ ima2 ]]Parte dunque dall’assoluta tradizione, una zuppa povera di Ciociaria, la "minestra a pane sotto" o "minestra revotata": ma, appunto, la rivolta come un calzino, facendone uno splendido piatto del Terzo Millennio che lascia a bocca aperta e papille plaudenti. S’ispira alla cucina del popolo: pane raffermo, legumi, qualche verdura, il quinto quarto giusto per dare un po’ di sapore… Sono ingredienti poveri che sotto le sue grinfie acquistano una veste tutta nuova, di grande raffinatezza.
Eppure c’era chi avrebbe potuto storcere il naso, a vederlo all’inizio dell’impresa, mentre tagliava a cubetti frattaglie di maiale e vitelli: rognone, cuore, animella, milza e fegato, ognuno in parti uguali (200 gr ciascuno per 10 persone, la metà solo per il fegato, il cui aroma va tenuto a bada): già gli schifiltosi parevano sul piede di guerra. Sarebbero stati convinti poco a poco, mentre Del Duca tostava in forno delle belle cipolle, in modo da caramellizzarne gli zuccheri e donar loro qualche sentore affumicato.
Avrebbe poi aggiunto i bulbi, tagliati grossolanamente e sempre con la loro buccia odorosa, a un semplice brodo di verdure, lasciando il tutto in infusione e ricavandone una sorta di pozione magica di bel color ambrato, aromatizzata ulteriormente con gusti di nocciole a loro volta tenuamente affumicati in forno.
Perché non si butta via niente: e se i gusci servono per il brodo, le nocciole sarebbero diventate componente essenziale di un ripieno però essenzialmente carnivoro, ottenuto frullando le frattaglie di cui sopra, dopo averle saltate in padella una ventina di minuti, con accorte spruzzate di evo: cuore e fegato per primi, poi raggiunti sui fornelli dal rognone, infine da animella e milza, quest’ultima adibita a conferire una splendida cremosità all’insieme. Prima del frullatore, canoniche aggiustate di sale e pepe nero e un mezzo bicchiere di vino dolce, a compensare i sentori ferrosi del fegato.
[[ ima3 ]]Intanto il fido Luca Carucci, a fianco dello chef, impastava un chilo di farina 00 con 32 (già, 32) tuorli d’uovo. Ne ricavava una sfoglia di pasta sottile che, tagliata a quadratini, veniva farcita col ben di Dio che vi abbiamo detto. La pasta ripiena finiva in pentola per qualche minuto, mentre Del Duca preparava una purea di fagioli del Purgatorio, tipici legumi dell’alta Tuscia viterbese, giusto con l’aggiunta d’un tocco di zenzero.
Poi passava alla parte vegetale della zuppa ciociara: e vi pensava in termini di assoluta contemporaneità. Così mischiava 200 gr di purea di cicoria, 4 uova intere e 20 gr di farina, immetteva nel sifone, caricava due volte, riempiva alcuni bicchieri di vetro e li passava nel microonde alla massima potenza, ricavandone delle specie di spugne verdi «ideali per assorbire il brodo».
Eravamo all’impiattamento: purea di fagioli, le spugne verdi, alcune bietole sbollentate, i cappellacci ripieni, poi fiori di sambuco, borraggine e violette a guarnire, prima di innaffiare di brodo. «Passione, tecnica, tradizione»: erano i tre termini coi quali lo chef sintetizzava un’ora da applausi.