“Volendo arrostirlo nello spedo, pelisi con acqua calda, e cauinosigli l’interiori, e empiasi d’una compositione (…) fatta di lardo, e presciutto battuto mescolato con la sua coratella, e fegato, che siano ben netti, e spetierie communi, prugne, e uisciole secche, cascio grasso che non sia salato, e uoua, e l’estade in loco delle prugne, e uisciole secche pongauisi uua spina, o agresto intiero e pere moscarole, e altri frutti non troppo maturi (…) e inspedisi, e facciasi cuocere a lento foco. Si può ancho arrostire uoto, e sottestato al forno. (…) Il ghiro (…) è animaletto di coda lunga, e pilosa, e ha il mostaccio aguzzo con una dentatura mordace, e tali animaletti si pascono di castagne, e noci, e nascono nelli detti arbori, e la sua stagione comincia dal mese d’ottobre, e dura per tutto febraro, percioche in quel tempo son grassi”.
Riccardo Camanini legge ricette di tal fatta, durante queste lunghe giornate d’estate, e si entusiasma: «Si parla tanto di mangiare insetti, delle formiche di Redzepi... Bartolomeo Scappi ("cuoco secreto di Papa Pio V" nonché autore delle parole di cui sopra, ndr) cinque secoli fa già ci insegnava come cucinare i ghiri ripieni di carne di maiale!» E poi come accomodare la testa di boue, la zinna della uaccina, la carne d’orso, le lingue d’anatre, le grue. Ma anche a realizzare piatti a noi più familiari: Minestra di cotogne con brodo di carne, Frittate di uova di storione, Pottaggio di calamari ripieni, Cascio parmiggiano in fettuccie, Crostate d’animelle, Maccaroni alla romanesca… Un patrimonio immenso di conoscenza culinaria, quello che lo Scappi propone nel suo Opera di M. Bartolomeo Scappi (1570), e che Camanini sta compulsando avidamente, «è una cornucopia inesauribile di stimoli».
E non esiste solo una fonte di sapere cui abbeverarsi: c’è il comasco
Maestro Martino tra Milano sforzesca e Roma papale, in pieno XV secolo; il ferrarese
Cristoforo di Messisbugo dagli Estensi mezzo secolo più tardi; appunto il varesino
Scappi alle tavole vaticane, come detto, ancora un secolo dopo; e
Bartolomeo Stefani, cuoco bolognese dai Gonzaga nel 1600 inoltrato (ne abbiamo già parlato qui, quando abbiamo raccontato
la nuova edizione di "Cucina mantovana di principi e di popolo"). E prima ancora, addirittura al tempo dei romani antichi, c’è era
Apicio, che
Camanini ha studiato ricavandone ispirazione anche per il piatto presentato all’ultima
Identità Milano, leggi
Che lezione Riccardo Camanini, cuoco dell'anno 2017. Sono solo alcuni esempi, per quanto i più illustri.

Lo staff del Lido 84 quasi al completo: da sinistra Muhammed Zahoor, Ahmed Shakeel, Andrea Puliga, Nicholas Berardi, Aliguettu Billa, Dorde Milinkovic, Gilles Fornoni, lo chef Riccardo Camanini, Ruggero Majolatesi, Andrea Capasso, il sous chef Marco Tacchetto, Giancarlo Camanini padrone della sala, Cristian Fermo, Martina Sguerso, la pasticcera Federica D’Alpaos, Antonino Scirè e il sommelier Manuele Menghini. Non erano presenti Babar Shahzad e il panettiere Luca Pedersoli (foto Tanio Liotta)
Ecco: il fuoriclasse del
Lido 84 risale le vie della nostra storia gastronomica non solo al fine di trovare spunti per sé, comunque obiettivo straordinario a ben pensarci, la libertà creativa dello chef contemporaneo applicata non tanto alla ricerca di processi nuovi, ipertecnologici o fondati su applicazioni complesse della chimica e della fisica; e nemmeno nello stanare materie prime rare e/o bizzarre dall’altra parte del mondo. Bensì attingendo a un tesoro che è già nostro e collega il presente italico in smania di grandezza con un passato – soprattutto rinascimentale o immediatamente post-rinascimentale – in cui tale gloria a tavola era effettiva.

Di nuovo Riccardo Camanini a Identità Milano 2017 (foto Brambilla-Serrani)
Non c’è solo questo, dicevamo. Alla base splende un’idea ancor più feconda e profonda: svincolare la cucina italiana da ogni sudditanza. Riscoprirne i maestri antichi e dimenticati, affrancandoci da primazie transalpine, lezioni spagnole e licheni nordici; liberarci dal complesso d’inferiorità (o dalla mancanza di consapevolezza) che ci porta a inseguire ceviche e sferificazioni, katsuobushi e fondi bruni, per rispolverare una dimensione nostra propria che discende dalla tradizione: e non più unicamente quella di popolo – innerva da sempre il prodotto più originale, rappresentativo e fondante il presente culinario tricolore, cioè la
trattoria – ma anche quella dei principi. Ossia: nobilitare (dissotterrandone appunto i padri nobili) anche l’alta cucina italiana, in una sorta di neo-Umanesimo gastronomico. «Si è già cucinato tutto, nei secoli», conclude
Camanini con un sorriso. E’ che non lo sappiamo più.

Doppi bottoni, cavolo rapa, ricotta al limone, sgombro e colatura di alici di Cetara
E INTANTO… - Opera anche culturale meritoria, che lo chef porta avanti a ristorante pieno («Siamo completi pranzo e cena da mesi», sono 40 coperti a pasto) e cucina in stato di grazia («Ma sulle ispirazioni dello
Scappi devo ancora lavorare», se ne riparlerà forse in autunno), con una struttura che si solidifica sempre più (ci raccontava nel novembre dello scorso anno: «All’inizio – che poi è stato il 21 marzo 2014, mica una vita – eravamo in quattro, ora in 13, più due stagisti pagati, e altri due inserimenti sono in programma». Adesso sono in 19). Ci ha colpito, al termine di una cena straordinaria, soprattutto l’enorme, apparente semplicità con la quale
Camanini trova la via breve per il gusto, senza orpelli, drasticamente centrando il sapore; pure armonia, pulizia, complessità, come in
Tapioca, arancia e uova di salmerino, profondo e avvolgente, oppure nella voluttuosa
Tartare di pesce persico del Garda, maionese leggera di foglie di fico, semi di girasole tostati. O ancora nelle favolose
Animelle di cuore di vitello, carote crude e fredde in saor, punch all’arancia, cumino, portulaca e geranio Leopoldo.
E ci hanno colpito pure i Doppi bottoni, cavolo rapa, ricotta al limone, sgombro e colatura di alici di Cetara: uno dei piatti migliori che ci sia capitato di assaggiare, da lungo, lungo tempo. Vi raccontiamo tutta la nostra cena nella fotogallery, gli scatti sono di Tanio Liotta.