In un tempio del Bello, uno scrigno del Buono rischia di rimanere in secondo piano, passare quasi inosservato. C’è piaciuto quindi avere l'opportunità di dischiuderlo per poterne ora raccontare l’assoluta eccellenza. Il tempio in questione è il Byblos Art Hotel, in Valpolicella: è il sogno realizzato e un po’ folle di Dino Facchini, che porta avanti col figlio Manuel la storia di un grande marchio della moda italiana – Byblos, appunto – ma ha coltivato in questi decenni anche una passione sfrenata per l’arte e il design, a partire da quelli contemporanei.
Invece di custodire i suoi pezzi in qualche stanza segreta, ha voluto renderli fruibili in questo hotel cinque stelle diverso da tutti gli altri, vero e proprio museo in 59 camere dove ci si può coricare osservati da arredi e oggetti dei più importanti designer internazionali - Gio Ponti, Eero Saarinen, Frank Lloyd Wright, Aldo Rossi, Philippe Starck, Ron Arad, Gaetano Pesce, Anna Gili, Patricia Urquiola, Harrison & Gil, Marcel Wanders, Ettore Sottsass, Luca Sacchet… - mentre il grande salone centrale, la reception, il ristorante e persino i corridoi ospitano oltre 100 opere di artisti che stanno scrivendo la storia dell’arte contemporanea internazionale, tra cui Marina Abramovic, Vanessa Beecroft, Peter Halley, Demian Hirst, Anish Kapoor, Marc Quinn, Cindy Shermann, Jean-Michel Basquiat. Il tutto nella cinquecentesca Villa Amistà di Corrubbio di Negarine, rimessa a nuovo con l’aiuto del celebre archietetto Alessandro Mendini che ha curato personalmente l’intero progetto d’interior design.

Hotel o museo d'arte contemporanea? Il salone del Byblos Art Hotel
Ne è scaturito un hotel cinque stelle lusso, inaugurato nel 2005 e subito vincitore dei più importanti riconoscimenti internazionali, cui a lungo è difettata però una parallela eccellenza nella cucina. Mancanza cui si è ovviato dal febbraio 2015, quando è stato affidato l’incarico di executive chef a
Marzo Perez.
Amistà 33, il ristorante gastronomico che questi vi ha creato, è oggi la perfetta trasposizione dello spirito
Byblos nel piatto.
Classe ’69, padre campano e madre sudtirolese (proprio a Vipiteno è nato e ha trascorso la giovinezza), Perez dopo un avvio brillante – nel 2004 è stato nominato tra i Cinquanta chef emergenti d’Italia – è a lungo uscito dai radar dell’alta cucina nazionale, a causa di un percorso professionale che l’ha portato spesso e volentieri all’estero: a New Dehli per il Regency Hyatt, a Londra per il Four Seasons, in Croazia per il Iadera Falkensteiner… Esperienze formative che gli hanno allargato la mente senza rinsecchirne le radici, saldamente abbarbicate in quel concetto del fine dining “all’italiana” che è oggi mainstream nel mondo.

Una scultura di Arnaldo Pomodoro al centro della sala dell'Amistà 33
Detto in altre parole:
Perez è un perfetto, intelligente, validissimo esponente della migliore Italia contemporanea a tavola: nessun anacronismo folkloristico e piacione, da parodia del “come eravamo” a uso degli stranieri in cerca di pasta, pizza e mandolino; ma nemmeno la ricerca di un cosmopolitismo fusion fine a sé stesso, privo di retroterra, perché lo chef ha ben presente l’eccellenza del patrimonio nostrano. Al contrario, una ricerca raffinata del legame territoriale, senza paraocchi claustrofobici, ma con tocco leggero, elegante, moderno.
Fa parlare il territorio, Perez, e lo esalta con mano ispirata. Per lui il km zero è il Paese, cosa che gli deriva innanzitutto dalla sua biografia: è cresciuto nel ristorante di famiglia in cui suo padre interpretava la tradizione partenopea del pesce, in una terra cui questi sapori erano pressoché estranei, «però a casa mia dominavano poi i canederli» di mamma. La contaminazione è insomma nel suo dna, lui ne fornisce una versione mediata dalla sapienza acquisita (anche) attraverso la lunga collaborazione con Massimiliano Alajmo. Oggi, per dirla con le sue parole, esprime la capacità «di esplorare la cultura gastronomica italiana nella sua interezza, partendo dal Mediterraneo e arrivando alle Alpi».

Marco Perez con Alessandro Dal Degan. I due sono stati recentemente protagonisti di una cena a quattro mani, all'Amistà 33
Così è stato anche nei nostri assaggi. In duplice copia, perché prima virati sulle suadenze terragne durante un quattro mani con un altro fuoriclasse del genere,
Alessandro Dal Degan de
La Tana Gourmet di Asiago. Poi, sviluppate anche sui sentori marini, giacché
Perez incarna perfettamente – lo abbiamo visto: per biografia, esperienze, propensioni, capacità – entrambe le tendenze. Su tutto: il rispetto per il prodotto, l’armonia vegetale e un minimalismo che permea le migliori esperienze odierne. Chef completo, «sono di madrelingua tedesco ma cresciuto in ambiente gastronomicamente italiano»: così riesce a raccontare mirabilmente il nostro Paese a tavola, con l’amore appassionato di chi ne è figlio e ama trasporre nei suoi piatti il legame intimo con le proprie radici, ma anche sapendo metterlo a fuoco nella sua essenzialità, grazie a quel tanto di distanza dal quale proviene e che poi s’è guadagnato sul campo. Di
Perez si è parlato in passato, si parlerà tanto anche in futuro.
Nella fotogallery, i piatti da noi degustati, negli scatti di Tanio Liotta.