08-11-2025

Jeremy Chan, cuoco universale: «Senza spezie, una sogliola è in bianco e nero»

Il training accademico, il cosmopolitismo delle idee, l'irresistibile linea piccante: a cena da Ikoyi, il ristorante di Londra che sfida il conformismo del fine dining

I partner di Ikoyi Iré Hassan-Odukale e Jeremy C

I partner di Ikoyi Iré Hassan-Odukale e Jeremy Chan e il loro Rombo con miso di egusi nelle foto di Maureen M. Evans e Justin De Souza

Quali criteri definiscono una tavola di valore? Nell’epoca dell’omologazione e del conformismo, certamente la personalità di chi la costruisce, lo studio e la ricerca anteposti al facile consenso, il coraggio di affrancarsi dalla like-crazia e dagli algoritmi che ci rendono tutti sempre più uguali. Sono tutte espressioni che abbiamo trovato paradossalmente nel ristorante di alta cucina più celebrato di Londra, una città a caccia di identità cui aggrapparsi nella deriva sempre più pronunciata dal Vecchio Continente.

Sulla Strand, un tempo l’arteria più affollata di cinema e teatri della City, da 3 anni c’è un nuovo palcoscenico, una sala calda al piano terra di un palazzo brutalista concepito negli anni Settanta. Oltre le vetrine delle frollature all’ingresso, si aprono tavoli ben distanziati, guardati dal lungo bancone di una cucina a vista. Appena dentro, notiamo un ragazzo della brigata colmare con la pinzetta un piccolo vuoto nella quenelle di caviale Oscetra.

Ikoyi è un insegna fine dining, e su questo non ci piove. «Ma fine dining vuol dire tutto e vuol dire nulla», chiarisce subito con toni sussurati e circospetti il cuoco e co-patron Jeremy Chan, «perché non ce n’è un solo tipo. Il nostro è guidato dalla passione per la cucina, per il prodotto, la precisione, l’organizzazione e la disciplina». Che tutto sommato sono le caratteristiche che definiscono l’alta cucina lungo i 125 anni dalla sua nascita. Una spina dorsale cui questo cuoco ha tuttavia innestato nuovi nervi.

Intanto, il profilo del ragazzo è piuttosto complesso: è nato a Hong Kong da padre cinese e madre canadese, ha vissuto già in 4 paesi e parla 7 lingue. Si è laureato in Lingue e Filosofia a Princeton, con una tesi che incrociava Nietzsche e il problema del linguaggio nel Don Chisciotte. Nel curriculum, non cita le esperienze nei ristoranti iper-stellati ma le referenze accademiche: si è appassionato agli studi del professor James McCann, storico del grano ed esperto di agro-ecologia del Corno d’Africa. Ha lavorato per l’Umami information centre del Giappone, studiato Etnobotanica africana nelle Americhe, fatto esperienza anche nel mondo dell’Economia. Un profilo che riassume meglio di tanti le caratteristiche del cuoco universale dell'ultimo ventennio, abilitato dopo millenni di irrilevanza pubblica a dialogare con esperti di arti e scienze.

La sala intreccia rame, pietra, acciaio, pelle e quercia (foto Irina Boersma)

La sala intreccia rame, pietra, acciaio, pelle e quercia (foto Irina Boersma)

Brodo di pepe di gola (Justin de Souza) e Riso Jollof affumicato (Irina Boersma)

Brodo di pepe di gola (Justin de Souza) e Riso Jollof affumicato (Irina Boersma)

Crema di cozze, zafferano e caviale Kaluga N25 e Ibisco e peperoncino Scotch Bonnet fermentato (Irina Boersma)

Crema di cozze, zafferano e caviale Kaluga N25 e Ibisco e peperoncino Scotch Bonnet fermentato (Irina Boersma)

Un groviglio di esperienze che rende impossibile etichettare la cucina che ne deriva. Certamente non è west-africana, un equivoco che nasce dal nome stesso del ristorante, un quartiere popolare di Lagos, paese d’origine di Iré Hassan-Odukale, socio e company director di origini nigeriane. È una cucina cosmopolita, che non ingabbia entro alcuna frontiera tradizioni senza confini, da tutto il mondo – Africa inclusa, certo, una rarità nell’eurocentrismo del fine dining. Piatti che trasformano essenzialmente prodotti e non contesti, micro-stagionalità costruite attorno a capesante e faraone scozzesi, rombi e triglie dalla Cornovaglia, risi jollof e zuppe egusi, microstagionalità e il favoloso make-up di spezie da tutto il mondo.

Già, le spezie, «Perché una sogliola con burro e limone», torna Chan, «è buona ma in fondo è una sogliola in bianco e nero. Senza spezie, fresche o essiccate, ogni piatto è insipido. Pensa a quante combinazioni puoi invece generare con solo 10 di queste. Sono tracce che tramettono il sapere di culture distanti e plurimillenarie. Veicoli di storie, sapori, intensità, deliciousness». La pensavano così anche Apicio o Bartolomeo Scappi, sommi gastronomi che si ribellarono al conservatorismo di tavole d'epoche distantissime, introducendo aromi esotici, che arrivavano dalle periferie dell'impero.

«E comunque le spezie sono solo strumenti subordinati al gusto che voglio dare». Aromi pungenti, dall’umami profondo. Con un’irresistibile linea piccante che sembra dosata da un’anestesista per accendersi e spegnersi al momento opportuno. Domina un menu degustazione unico – 350 pound, tra i più cari di Londra – che fa bingo con gli accoppiamenti di vini e soprattutto i tè, serviti e raccontati da Federico Quintavalle, bravissimo sommelier italiano dell’Isola d’Elba. Tre ore sublimi.
Animelle Suya (Justin De Souza)

Animelle Suya (Justin De Souza)

Toast di seppia ubriaca (Justin De Souza)

Toast di seppia ubriaca (Justin De Souza)

Sorbetto di cherry cola, baba ganush alla liquirizia, crema alla vaniglia e shiitake, succo di ciliegia caramellato (Justin De Souza)

Sorbetto di cherry cola, baba ganush alla liquirizia, crema alla vaniglia e shiitake, succo di ciliegia caramellato (Justin De Souza)


Zanattamente buono

Il punto di Gabriele Zanatta: insegne, cuochi e ghiotti orientamenti in Italia e nel mondo

Gabriele Zanatta

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Gabriele Zanatta

classe 1973, laurea in Filosofia, coordina la Guida ai Ristoranti di Identità Golose e tiene lezioni di storia della gastronomia presso istituti e università. Co-autore di "Cracco in Galleria" (Phaidon e L'ippocampo) e "Cucina Milanese Contemporanea" (Guido Tommasi). Instagram @gabrielezanatt

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