Perù è una perfetta rappresentazione della Forza della Libertà. Perciò il Paese sudamericano non poteva mancare a Identità Milano 2016: perché è una naturale mescolanza di culture e dunque cucine, «e non chiamatela fusion, che troppo spesso degenera in confusion», spiega dal palco Sanjay Dwivedi, che è indiano, cucina a Londra, ma con stile peruviano. Una delle tante storie da raccontare.
C’è quella di Mitsuharu Tsumura. Peruviano con quel nome lì? Eh sì, perché a fine Ottocento, Lima e dintorni sono stati l’approdo di molti: cinesi (in città ci sono 3mila ristoranti che servono i piatti del Celeste Impero), spagnoli, africani, creoli, italiani, specie da Genova (e si trovano versioni locali del minestrone, del carpaccio, del pesto…) e ovviamente giapponesi, come Mitsuharu, che sottolinea: «La nostra è una storia di libertà, di biodiversità e microclimi».
Ma come si coniugano gli stili culinari nipponico e peruviano, quando li separano 20mila chilometri d’oceano? Per contrasto e assonanza: «Il contrasto è nel tono generale, la cucina peruviana è hard rock, forte, piccante, vibrante. Quella
jap è musica classica, più sottile, delicata e dedicata al prodotto». Eppure il sushi richiama il ceviche… L’esito è la cucina
nikkei, della quale
Tsumura è rappresentante eccelso. Prepara, per dirne una, una salsiccia di paiche, un pescione amazzonico che raggiunge i 300 chili, con polpo e un altro pesce, simile all’abalone. Ne taglia una fetta e l’adagia su un riso cotto e poi disidratato e fritto, condito con scaglie di bonito secco. Poi platano maturo alla brace, emulsione di sacha tomate e ponzu.
Tocca poi ai ragazzi del Pacifico, format milanese di alta cucina peruviana, che abbiamo raccontato qui. Tre giovani soci sul palco, Guillaume Desforges, Jacopo Signani e Leonardo Signani (il primo è parigino, gli altri di Carrara) e un altrettanto giovane chef con loro, il peruviano Ernesto Espinoza, che cucina come parla italiano: bene. «Il segreto? Freschezza e semplicità». Al Pacifico il ceviche amazzonico di branzino ha un tocco di nocciole, scalogno acidificato, zucchero e coriandolo, oltre all’immancabile leche de tigre, un'emulsione di brodo di pesce e lime, dall’equilibrio complesso. Poi si passa alla causa, altra bontà tradizionale a base di purea fredda di patata gialla, che all’indirizzo di via della Moscova viene scomposta, condita con maionese alla cipolla, coriandolo e crema di peperoncino rocoto, tonno rosso freschissimo, purea di avocado emulsionato con lime, latte e sale. Bottarga di muggine da grattare alla fine.
La storia di
Dwivedi l’abbiamo già accennata: nato a Londra, vissuto a lungo nella sua India, tornato a Londra – città di libertà per eccellenza -, prende la stella Michelin con un suo locale di cucina indiana. Affascina un imprenditore,
Arjun Waney, già proprietario d’indirizzi di successo a Londra quali
Roka e
Zuma, che gli propone di diventare lo chef di un suo nuovo ristorante:
Coya. Peccato che
Coya proponga cucina peruviana: «Se la sente di andare a impararne il segreti?». «No». Si cambia idea, nella vita: due settimane e 36 pranzi e cene in Perù dopo,
Dwivedi torna a Londra dove ha disposizione una cucina deserta per sperimentare ancora e ancora. Ne nasce una tavola peruviana, di stile contaminato ma rigoroso nelle armonie di base: «Serve il perfetto equilibrio tra lime, pesce e peperoncino, per creare il
leche de tigre giusto». Da
Coya ne servono 12 tipi diversi, perché sono flessibili: «Abbiamo anche un indirizzo a Miami, lì amano lo sgombro, quindi usiamo spesso quel pesce. A Dubai adorano la verdura, e quindi creiamo tanti ceviche vegetariani». Perché le possibilità in cucina sono mille: «Il coriandolo si può anche non mettere, molti chef italiani non lo amano. Si può aggiungere patata dolce, o wasabi, o succo di sedano o di zenzero, o quello dei carapaci dei gamberoni, oppure olio di sesamo, o pomodoro, o carciofo...». L’importante è la purezza delle fondamenta e l’eccellenza della materia prima: «Ci arrivano quattro tipi di lime ogni settimana. Ma noi usiamo solo il succo di prima spremitura, quello che si ottiene all’inizio, perché il successivo si arricchisce di oli essenziali, che danno un gusto amaro che non va bene per il ceviche (mentre va benissimo per altre preparazioni,
ndr)».
Chiude il numero uno peruviano,
Virgilio Martinez: «Noi lavoriamo la terra e con la terra. Siamo stati sensibilizzati dalla cultura andina e la vogliamo comunicare al meglio. Volevamo che il nostro ristorante avesse una sorta di trascendenza, è una parola troppo grossa? Abbiamo iniziato anni fa a esplorare le cime del Perù, trovando incredibili ecosistemi, microclimi diversissimi a pochi minuti l’uno dall’altro. Abbiamo da subito voluto rappresentare questa realtà nel piatto». Ora il lavoro di
Martinez sta conoscendo una fase successiva, ancor più delicata: fare una cucina che possa rimandare anche all’ecosistema culturale, che è più complesso da capire. Presenta a
Identità Milano piatti che sono una trasposizione perfetta dei tanti Perù: uno richiama l’ecosistema delle mangrovie del Nord, con lumachine nere, frutti di mare, un estratto della polpa bianca del cacao, il latte di tigre al cactus del deserto, foglie di camote (patata dolce) e una ragnatela croccante della crema della stessa, disidratata. Nella ricetta successiva, che richiama invece il deserto che circonda Lima, fanno bella mostra di sé trucioli di argilla commestibile.