Per il quattordicesimo anno di fila Massimo Bottura fa il pieno all’Auditorium. E lo farà anche nel 2020 se la scia è l’intervento di questa mattina, un’arringa appassionata come e più di sempre, così tanto che un paio di volte deve tornare sui suoi passi, per riprendere un filo smarrito per l’emozione: «È sempre incredibile salire su questo palco», esordisce sostenuto da un fragorosa accoglienza.
Cultura, conoscenza, consapevolezza, senso di responsabilità. È la concatenazione di quattro urgenze a definire ancora una volta la scaletta dei contenuti, un poker che noi identitàgolosini conosciamo bene ma che iuvat repetere all’infinito perché solo così entra nella testa della gente. Del resto, a furia di martellare, «Siamo riusciti ad accendere una rivoluzione umanistica: nel 2003 guardavamo nelle pattumiere dei nostri ristoranti ed erano piene di cibo avanzato, oggi non succede più».
La cultura, il primo dei 4 cardini, sosterrà tutto l’intervento, «Perché vengo da una provincia in cui il sapere viene prima di ogni cosa: il desiderio più grande di mio padre era prendere una laurea, non le 3 stelle Michelin. È la più alta forma di riconoscimento sociale. Ma è pure la molla che mi ha spinto quando, dopo gli apprendistati con Georges Cogny, Alain Ducasse, New York e Ferran Adrià, sono tornato nella mia Modena perché volevo fare qualcosa di diverso. Neanche avrei immaginato che avrei dovuto affrontare tutte queste sfide». O che avrebbe ottenuto 3 lauree ad honorem in pochi anni.

«In quasi 25 anni di
Osteria Francescana sono cambiate tante cose ma un elemento è rimasto identico: l’atteggiamento con cui filtriamo il passato, sempre critico e mai nostalgico. Lo facciamo per portare il meglio del passato nel futuro. Ci divertiamo come bambini a comprimere idee in contenuti masticabili. Che generano consapevolezza, visione, intuito, fede. Tutti crocevia che traghettano il razionale ed emozionale». Il mezzo, la cassetta degli attrezzi che condurrà il percorso al senso di responsabilità.
«Il cibo è un’espressione culturale», ecco uno dei tanti titoli possibili dell’intervento, «Il ristorante è sempre più una bottega rinascimentale, un laboratorio di idee in cui si produce cultura. Come le nostre opere d’arte di via Stella, finestre aperte su panorami di idee. Sull’artigianato dei casari, degli agricoltori, dei viticoltori, delle acetaie. Cultura che genera turismo: è la prima volta che vediamo turisti a Modena, così come a San Cassiano, a Licata». Riferimenti impliciti all’esempio che stanno pure scrivendo altri due assi come
Norbert Niederkofler o
Pino Cuttaia.
Ristorante che però è un insieme di persone, non di cose: «Sono i ragazzi che tengono in vita la
Francescana. Il lavapiatti
Jahid ha lo stesso valore di
Davide (
Di Fabio,
ndr) e
Taka (
Kondo), i sous chef. E il servizio perfetto regala gioie che non sono nulla se non sono le condividi con gli altri. Sono emozioni che possono durare una vita intera».
TORTELLANTE. Nell’impalcatura botturiana, il tetto è il senso di responsabilità: «Coi
Refettori e
Food for Soul abbiamo individuato nuove modalità per esprimere un gesto sociale. Abbiamo spostato il fuoco della quotidianità nelle comunità periferiche, tra le famiglie isolate, tra gli individui svantaggiati». È successo non solo coi
Refettori (A proposito, «Stiamo per aprire anche a Merida, negli Stati Uniti, Firenze, Montreal, Sydney e in Ecuador») ma anche col progetto del
Tortellante, la vera notizia del giorno.

LA PATATA. Alle spalle del cuoco, Bob Noto (1956-2017)
«A Modena i tortellini sono un’istituzione; anzi, una religione. Due anni fa
Silvia, un’amica d’infanzia, ha acceso una scintilla: pensa se potessimo insegnare ai nostri ragazzi svantaggiati a fare i tortellini, mi ha detto. Potrebbero farlo le
rezdore, le nonne, le mamme di questi ragazzi speciali. Le rezdore hanno tenuto insieme le famiglie per una vita intera. Il mio Charlie potrebbe fare i tortellini, anche lui è un ragazzo speciale. Abbiamo capito subito il valore di questo progetto. Abbiamo messo le mani in pasta, raccolto i fondi. All’inizio erano 7/8 ragazzi. Ma le notizie buone corrono molto veloci. Ora sono 35. Ci siamo accorti che il
Tortellante poteva allargarsi ben oltre il doposcuola, diventare un ponte tra scuola e vita, generare impiego e lavoro. Oggi riceviamo talmente tante richieste che non riusciamo a soddisfarle:
Chicco Cerea, la Tetrapak hanno fatto ordini da quintali. Così tanti che
Charlie si è ribellato: ‘Basta farmi lavorare come uno schiavo’». Commozione.
La lezione approda al piatto, la
Faraona, un’esecuzione magistrale in 3 atti che
abbiamo dettagliato solo poche settimane fa. «Un’opera che ricalca il gran finale di un’opera, l’ultimo passaggio dopo adagio, minuetto e allegro. E abbiamo utilizzato tutto dell’animale, ecco cos’è il senso di responsabilità». E torna al principio del viaggio, secondo il registro ironico caro a Bottura che capovolge lo schema per tornare all’inizio: la cultura. Sullo schermo scorrono le immagini di una candida
Mirella Cantarelli da Samboseto, interrogata da
Luigi Veronelli sulla leggendaria Faraona alla creta. E poi sull’ormai celebre
Patata che voleva diventar tartufo. E un’immagine ilare di
Bob Noto che inneggia al tubero, «Quanto mi manca
Bob; senza lui e
Giorgio Grigliatti la cucina italiana non sarebbe dov’è». Tre minuti di applausi.