24-06-2017

Mantova golosa riparte da East Lombardy

Con la nuova edizione di "Cucina mantovana di principi e di popolo" si celebra e rilancia una grande cultura gastronomica

Cucina mantovana di principi e di popolo, realizza

Cucina mantovana di principi e di popolo, realizzato nel 1963 da Gino Brunetti, pseudonimo di don Costante Berselli, e ristampato ora da Skira nell'ambito di Eat Mantua, per East Lombardy

Il progetto East Lombardy innerva i caratteri dei quattro territori che vi partecipano – Bergamo, Brescia, Cremona e Mantova, ognuno con sue caratteristiche peculiari e radicate nel tempo – di specificità comuni, di obiettivi condivisi; lo fa attraverso un asset fortissimo, a sua volta insieme identitario e aggregante, com’è la cucina. In questa prospettiva, l’iniziativa Eat Mantua, lanciata ieri col primo di due giorni che saranno peraltro prologo di altre iniziative di lunga portata, colpisce davvero nel segno, andando a recuperare l’illustre tradizione culinaria locale come luogo in cui incardinare il fulcro stesso (o uno dei fulcri) della mantovanità, dell’idem sentire di qui. Ossia: la cucina mantovana è il segno in cui riconoscersi, poiché è “di principi e di popolo” ed è giunta fino a noi sintetizzando, quasi riassumendo gli ultimi secoli di storia.

Il tavolo dei relatori: Malacarne, Santini, Paolini, Garibaldi, Montanari, Marchini

Il tavolo dei relatori: Malacarne, Santini, Paolini, Garibaldi, Montanari, Marchini

Tutto questo, brillantemente, attraverso la riscoperta di un libro geniale ma quasi dimenticato: Cucina mantovana di principi e di popolo, realizzato nel 1963 da Gino Brunetti, pseudonimo di don Costante Berselli, e ristampato ora da Skira. Perché geniale? Perché quel “di principi e di popolo” (lo scriviamo per la terza volta, è lo snodo del nostro racconto) non indica solo una semplice sommatoria tra due realtà distinte (il Berselli riunisce in questa opera l’immortale L’Arte di ben cucinare, trattato dello scalco gonzaghesco Bartolomeo Stefani, dunque i piatti della corte, e le ricette popolari mantovane tra ’800 e ’900), bensì i riferimenti culinari di un percorso comune, potremmo dire interclassista, e dal quale tutta Mantova – tutti i mantovani – possono attingere quasi fosse una fonte unica di sapienza gastronomica e valore identitario.

Amore e Psiche a Palazzo Te: questa sala è per il direttore dei musei civici, Stefano Benetti, «manifesto della civiltà di Corte, con le due pareti che mostrano la credenza e il banchetto». Qui l’imperatore Carlo V mangiò (da solo, gli altri grandi della terra erano nell’attigua sala dei Cavalli) durante il suo soggiorno di 20 giorni, dopo il quale Mantova diventò un Ducato

Amore e Psiche a Palazzo Te: questa sala è per il direttore dei musei civici, Stefano Benetti, «manifesto della civiltà di Corte, con le due pareti che mostrano la credenza e il banchetto». Qui l’imperatore Carlo V mangiò (da solo, gli altri grandi della terra erano nell’attigua sala dei Cavalli) durante il suo soggiorno di 20 giorni, dopo il quale Mantova diventò un Ducato

Per comprendere il concetto, ci rifacciamo innanzitutto alle parole di Massimo Montanari, storico dell’alimentazione e tra i protagonisti del bollente (per ragioni meramente climatiche) dibattito moderato da Davide Paolini e svoltosi ieri nel cortile di Palazzo Te: «Si è sempre pensato che non ci fossero informazioni sufficienti su come mangiasse il mondo contadino nel nostro Rinascimento. E’ un pregiudizio nel quale ho creduto a lungo, ma che ora metto in discussione». Perché – ha spiegato Montanari - leggendo lo Stefani, cuoco bolognese dai Gonzaga nel XVII secolo (ma anche gli altri suoi grandi colleghi precedenti che ci hanno raccontato le cucine delle corti italiane: il comasco Maestro Martino tra Milano sforzesca e Roma papale, in pieno XV secolo; Cristoforo di Messisbugo dagli Estensi a Ferrara mezzo secolo più tardi; Bartolomeo Scappi alle tavole vaticane con un salto di qualche altro decennio…) «si intuisce perfettamente una realtà sottostante: queste ricette illustri appartengono, in parte, anche al mondo contadino».

I testi dello Stefani e quelli di Gino Brunetti, pseudonimo di don Costante Berselli, la prima e la recentissima edizione

I testi dello Stefani e quelli di Gino Brunetti, pseudonimo di don Costante Berselli, la prima e la recentissima edizione

Strano, ha sottolineato Montanari: quella società si era costruita anche sull’ideologia della differenza tra élite e popolo; era molto classista, diremmo noi oggi, e le fasce dominanti non perdevano occasione per sottolineare la propria alterità rispetto a quelle più umili. Anche a tavola. Da una parte i mangiacipolle, il popolo che puzza d’aglio e sopravvive con polenta e radici; dall’altra la corte, dove gustare carni prelibate spolverate in abbondanza di costosissime spezie. Due universi separati.

Eppure… «Eppure i principi non erano scemi – ha narrato ancora Montanari – Comprendevano quanta cultura gastronomica vi fosse dietro al desinare semplice e improvvisato del mondo rurale: una minestra di cereali, le rape cotte sotto la cenere… Sono ricette che troviamo pure in questi libri “d’alta cucina” ante litteram – i quali dunque ci raccontano seppur indirettamente come mangiasse il popolo, per smentire quanto pensato finora – solo che sono nobilitate, rese più complesse e costose». C’è un appropriazione di un savoir faire del popolo, una contaminazione anche sociale tra culture diverse. Alto e basso dialogano, pur rimanendo distinti, «è un fenomeno tipico del policentrismo italiano». Lo scambio culturale ha proprio la cucina come proprio luogo d’elezione: lo stesso tortello, emblema della cucina dei Gonzaga, secondo l’erudito lombardo Ortensio Lando sarebbe stato inventato dalla umile contadina lombarda Libista, che per prima inserì il “raviolo” (ossia il ripieno) nella sua camicia di pasta.

I relatori al brindisi finale col sindaco di Mantova, Mattia Palazzi

I relatori al brindisi finale col sindaco di Mantova, Mattia Palazzi

Dunque il Berselli, recuperando lo Scappi, ripropone quest’operazione involontariamente interclassista. Ma fa di più: allegando anche le ricette mantovane tra ’800 e ’900 compie un altro, piccolo miracolo. Lo ha spiegato l’altro storico coinvolto nel dibattito, Giancarlo Malacarne: «Cucina mantovana di principi e di popolo, assieme al banchetto conviviale realizzato proprio a Palazzo Te due anni prima, dunque nel 1961 da Angelo Berti, ha segnato la svolta di una cucina locale che rischiava di vedere sparire le proprie radicate tradizioni nel dimenticatoio» proprio perché, accanto alla grande stagione (anche) gastronomica della corte gonzaghesca del Seicento, procede al recupero di una tradizione, quella della tavola mantovana ottocentesca e novecentesca. Insomma, in sintesi, fa dialogare non solo le classi sociali, ma anche il tempo: diventa così una sorta di summa di una sapienza comune che va oltre le distinzioni di censo e d’epoca; riunisce in un solo testo tutto un illustre genius loci culinario.

E’ straordinario rilevare come questi fili della storia (e di questa storia) si dipanino perfettamente fino ai nostri giorni, basti pensare al racconto di Antonio Santini: «I miei crearono il nostro ristorante nel 1925. Mio nonno Antonio faceva il pescatore sull’Oglio, mia nonna Teresa si mise a cucinare il suo pescato, così la gente andava a mangiare Dal Pescatore», cucina di popolo, semplice. «Nel 1976 Gaetano Martini (gran custode della tradizione locale con Il Cigno, ristorante dalla lunga ed eccellente storia, ndr) mi regalò il libro di Berselli; poi incontrai Gualtiero Marchesi, il che mi aiutò a innestare nella nostra tradizione casalinga i concetti della nuova tavola», insomma ancora una volta dal basso verso l’alto, in un dialogo fecondo e fertile che produce una crescita continua, Santini l’ha sintetizzata così: «I tortelli di zucca di Teresa erano buonissimi, quelli di mia madre Bruna ancora migliori, ma più buoni ancora quelli di mia moglie Nadia. Il massimo, però, sono quelli di mio figlio Giovanni», il che non deve sorprendere, pensiamo ad esempio al fatto che il Nord, con qualche eccezione, non possedeva almeno fino a non molto tempo fa il concetto stesso di pasta “al dente”.

Santini ha evidenziato però anche un problema: Mantova fino agli anni Novanta vantava molti celebrati indirizzi del mangiarbene d’eccellenza. Oggi ce ne sono di meno, «ma noi mantovani abbiamo sempre avuto la cultura del bello e del buono, dobbiamo tornare a svilupparla».

In questo senso sarà certamente d’aiuto Eat Mantua, nell’ambito di East Lombardy (rappresentata ieri dalla direttrice scientifica Roberta Garibaldi), ma non solo. Dal 26 agosto al 10 settembre il cibo di strada entrerà nel giardino dell’Esedra di Palazzo Te con Il Giardino dei Sapori e con i Jeunes Restaurateurs d’Europe - è intervenuto il presidente nazionale, Luca Marchini - che interpreteranno in ogni fine settimana piatti e prodotti mantovani. E il legame con la cultura, ha annunciato Stefano Baia Curioni, presidente del Centro Te, si rinnoverà in settembre in una sinergia con il Festivaletteratura: «Il cibo è cultura, ma è anche lavoro, e il Centro Te fa cultura per interagire con un territorio che ha bisogno di occasioni di crescita». Infine, le iniziative di Eat Mantua non saranno legate solamente all’anno 2017, con la Lombardia Orientale nominata Regione Europea della Gastronomia. Ad esempio Il Festival della Pasticceria Tradizionale Mantovana che si tiene oggi sarà destinato a ripetersi ogni anno, come ha annunciato il sindaco Mattia Palazzi, intenzionato a «valorizzare un filone finora tralasciato della nostra tradizione gastronomica».


East Lombardy

Il racconto delle eccellenze di Bergamo, Brescia, Cremona e Mantova

a cura di

Carlo Passera

classe 1974, milanese orgoglioso di esserlo, giornalista professionista dal 1999, ossia un millennio fa, si è a lungo occupato di politica e nel tempo libero di cibo. Ora fa l'opposto ed è assai contento così. Appena può, si butta su viaggi e buona tavola. Coordinatore della redazione di identitagolose.it e curatore della Guida di Identità Golose alle Pizzerie e Cocktail Bar d'autore. Instagram: carlopassera

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