Mentre alla Farnesina si snocciolavano i dettagli della Settimana dalla cucina italiana di qualità, un incontro in parallelo trascinava ieri pomeriggio a Milano un’altra bella fetta di stati generali dell’enogastronomia, nazionale e non solo. Ferrari Trento e World’s 50Best hanno scelto gli stucchi e gli ori di Palazzo Serbelloni per lanciare The art of hospitality, riconoscimento che andrà al ristorante che meglio si distingue sul fronte dell'ospitalità. Verrà annunciato la sera della finale degli Oscar della cucina, il 13 giugno a New York, per la prima volta Oltreoceano dopo 14 edizioni londinesi. «Con questo award», apre le danze dell’incontro la giornalista Eleonora Cozzella, «si vuole dar valore al fatto che un ristorante è la somma di esperienze che vanno oltre la cucina in sè».
«Prima di iniziare», subentra Matteo Lunelli, «lasciatemi specificare che Marco Reitano, sommelier della Pergola di Roma e presidente di Noi di Sala non è potuto venire perché colpito da un grave lutto familiare». È partito un lungo applauso. Alla fine, il ceo della casa trentina ha citato Aristotele: «L’eccellenza non è un atto unico ma un’abitudine. Il 13 giugno brinderemo all’insegna che si sarà distinta per ospitalità e atmosfere memorabili».
Chiuse le premesse e il senso della serata, ecco i relatori. Sul palco, dopo
Hélène Pietrini, direttore
World’s 50Best («L’ospitalità è la vera essenza dei ristoranti», afferma telegrafica), è salito l’economista della Bocconi
Severino Salvemini, autore di un lungo intervento sugli aspetti che premierebbero un ristorante al di là della qualità del cibo e del vino: «Il consumatore va messo al centro del processo, un ribaltamento che costringe a rovesciare gli assetti organizzativi». Ancora: «L’economia postmoderna non dà tanto valore alla funzionalità ma agli aspetti simbolici, e così deve comportarsi la ristorazione». E un discutibile: «Alle pareti di un ristorante, meglio scegliere l’arte concettuale e astratta: l’arte figurativa divide i gusti dei commensali».
Con Andreas Caminada, brillante alfiere della nuova cucina svizzera allo Schloss Schauenstein di Fürstenau, 3 stelle Michelin, arriva la voce degli addetti ai lavori: «Io, cuoco, sono il primo a dire che il cibo è una base necessaria ma non sufficiente da cui partire. Nel nostro boutique hotel sappiamo bene che occorre molto di più: dobbiamo vendere esperienze». Un concetto ribadito dal britannico Daniel Willis, maître del Clove Club di Londra, chiamato per aver confezionato uno dei primi supper club, anno 2008: «Grande ospitalità significa grande organizzazione di base. Noi invitiamo sempre lo staff a non essere troppo formale. L’esperienza funziona se tutto lo staff si muove con personalità, adattabilità, passione, amicizia e soprattutto se lavora in equipe».
E’ il turno della ristorazione italiana d’eccellenza:
Calandre e
Osteria Francescana. Prendono il microfono
Raffaele Alajmo, amministratore di
Alajmo Group, «150 dipendenti in Italia e 20 in Francia» e
Massimo Bottura, cui il padovano si rivolge subito («
Massimo, tu hai scelto una persona straordinaria per la tua sala:
Beppe Palmieri») per poi puntualizzare: «L’ospitalità è eccellente se funziona tutto quello che viene prima della sala: il sito internet, i tempi rapidi di risposta alle email… Poi conta anche la memoria d’elefante del maître: deve sì ricordare che quel cliente è venuto 4 anni fa ma non deve commettere gaffes perché magari la volta precedente era qui con l’amante». Ancora: «La sovresposizione dei cuochi ha oscurato altri ruoli fondamentali. Non tanto il sommelier, che comunque in Italia ha avuto già prestigio con figure come
Enrico Bernardo o
Luca Gardini, ma soprattutto il cameriere. Persino la parola ‘cuoco’ oggi vale più di ‘cameriere’».
È il momento di
Massimo Bottura: «Hai ragione
Raffaele: se non avessi avuto
Palmieri non avrei potuto fare quello che ho fatto in questi anni. La nostra sala è il frutto di un lavoro che va avanti quotidianamente da decenni». L’aneddoto: «Quando
Beppe raccoglie i camerieri per il brief mattuttino, si rivolge sempre loro così: ‘Oggi dovete essere
Antonio Santini’». Il decano di sala del
Pescatore, presente in platea, sorride: «Poveri ragazzi: tanti avranno 18 anni o giù di lì, mica potete associarli a me. Tornando seri, vorrei criticare chi è critico sulle nostre scuole: esistono e funzionano, occorre solo migliorarle».

Il gonfalone dell'evento. In platea c'erano tante personalità importanti della ristorazione italiana: tra gli altri Chicco Cerea di Da Vittorio, Antonio e Alberto Santini del Pescatore, Stefania Moroni, Nicola Dell'Agnolo, Alberto Piras di Aimo e Nadia, Antonio Guida e Alberto Tasinato di Seta, Andrea Berton del ristorante Berton, Andrea Aprea e Nicola Ultimo di Vun, Sandra Ciciriello e Viviana Varese di Alice, Alfio Ghezzi della Locanda Margon, Pasquale Torrente del Convento...
Microfono di nuovo al modenese: «Qualche anno fa, in
Francescana, dei clienti romani apostrofarono
Beppe in questo modo, davanti a me: ‘E questo chi è?
Nun è nessuno’. In quel momento ho capito esattamente il dramma in cui versava la sala». C’è ancora tempo per due regole auree di
Mauro Governato, direttore del
Four Seasons Hotel di Milano: «Tratta il cliente come vorresti essere trattato tu» e «L’imperativo per tutti è lasciare i problemi personali fuori dalla porta».
Colpo di scena in coda: a fine conferenza, dal fondo della sala, irrompe
Gualtiero Marchesi. Con lui, il consueto corredo di dichiarazioni pungenti: «
Massimo, io e te abbiamo un conto aperto», scherza rivolgendosi a
Bottura. E dopo: «I ragazzi la smettano con la moda della cucina, scelgano di fare i camerieri. La sala oggi conta al 60%». Sarebbe bello se si tornasse ai riti della porzionatura in sala: «Nulla mi dava più emozione del sangue che bagnava la carne dello chateaubriand fatto al torchio», rammenta emozionando i presenti. E in risposta a chi sostiene che non ami il vino: «Non è vero che ho smesso di bere. Vorrei ricordare che sono stato il primo a costruire una carta di vini italiani, con 250 etichette». Sipario e tutti a brindare con
Perlè Ferrari.