Mi racconta Toni Sarcina (di Altopalato) un episodio gustoso: «Anni fa con alcuni altri buongustai prenotai all'Albereta, chef Marchesi. Arrivammo a Erbusco tutti eccitati, ma venimmo accolti da una delusione: Gualtiero era stato bloccato altrove da un impegno di lavoro, non sarebbe stato presente. In cucina c'era un certo Andrea Berton: dico "un certo" non perché ignorassi chi fosse, lo conoscevo già, ma non l'avevo mai visto all'opera senza la presenza di Marchesi. Avevamo concordato con quest'ultimo la preparazione di alcuni suoi specifici piatti, ma vista la sua assenza mi venne un'idea. Andai da Berton, e gli chiesi: "Dato che il Maestro non c'è, te la senti di proporci un menu tutto tuo, dove emerga la tua personalità?". Ci disse di sì e squadernò un percorso fantastico, memorabile, di 5 portate, dove si vedeva chiaramente una mano diversa, raffinata, originale. Fummo felicissimi, tanto che quel gruppo di buongustai da lì in poi diventò habitué di Berton, anche nelle sue tappe successive».

Berton con Gualtiero Marchesi all'epoca dell'Albereta
E a proposito di tappe successive: nel 2008 la stella al
Trussardi alla Scala («La mia prima vita», commenta ironicamente), poi raddoppiata l'anno successivo, nel 2013 l'apertura del
Berton ristorante a Milano... Sono insomma passati rispettivamente 10 e 5 anni dai più recenti step fondamentali nella carriera del friulano. Gli narriamo l'aneddoto di
Sarcina.
Berton è sorpreso, non se lo ricorda.
Poco male: ma quando ti sei sentito chef a tutto tondo?
«Non è un passaggio improvviso, piuttosto una lenta presa di consapevolezza. Tecnicamente divenni chef proprio con Marchesi all'Albereta, quando Carlo Cracco se ne andò. Io ero sous, Marchesi rifletteva su cosa fare per sostituire il partente, io andai da lui e gli dissi: "Se vuole prendermi in considerazione, io mi sento pronto". Lui sulle prima fu dubbioso, "sei giovane, è un bell'impegno...”. Era insomma incerto».

Marchesi con suoi tre celebri allievi: Berton, Crippa e Cracco
E tu?
«Io pensavo: "Lo faccio, lo voglio fare. Mal che vada, se non ci riesco, mi manderà via". Non mi ha mandato via».
Affronti così la vita? Con questo piglio?
«Sì. Anche in precedenza, la prima volta che ho incontrato Marchesi fu perché decisi di presentarmi e propormi, senza un appuntamento. Mi prese subito a lavorare, non passò neanche un giorno. Era il 1989. La mia idea è sempre stata: se vuoi una cosa, vai e prova a prendertela. Così anche fu con Alain Ducasse. Occorre buttarsi ed essere determinati; fa parte del mio carattere e del mio modo d'essere, questo porta a responsabilizzarsi: perché a un certo punto non devi pensare solo ai piatti, ma all'impresa nel suo complesso: allo staff, alle materie prime, alla soddisfazione generale del cliente. Questo implica la capacità di gestire livelli più importanti, ampi, e diverse situazioni».
Il che fa di te uno dei pochi chef italiani che ottengono successo anche a livello imprenditoriale. In grado di creare un vero e proprio gruppo ristorativo. Una volta erano casi rarissimi, oggi va un po' meglio.
«È cambiata la professione, è cambiato il mondo, oggi uno chef è automaticamente anche un po' manager. Io mi approcciai a questa logica proprio da
Ducasse, fu lui ad aprirmi nuove prospettive, e avevo solo 22 anni. Vedevo lui che iniziava a costruire un impero, mi colpirono molto la sua determinazione, il suo
savoir faire. Mi sentii subito portato a quel tipo di modello, l'ho sempre vissuto come una strada da percorrere, anche se non l'ho potuto fare subito. A 26 anni sono diventato chef e poi ho sempre mantenuto questo mio ruolo, ma poco a poco affiancando al ristorante principale altri progetti. Mi sento bene così: non riuscirei a dedicarmi a un unico ristorante, magari da 10 coperti, come fanno altri. Mi piace organizzarmi, gestire, creare un team, fidarmi delle persone. A volte tale fiducia è ripagata, a volte no, ma fa parte del gioco».

La brigata del Berton all'epoca dell'apertura, cinque anni fa
Oggi quante persone fanno parte del "sistema Berton"?
«Circa 130, delle quali 28 solo qui al
Berton milanese. Sono spesso collaboratori che lavorano con me da molti anni, come l'attuale sous chef
Simone Sangiorgi, che ha preso il posto di
Claudio Catino, ma era già qui all'inizio. C'è
Luca Enzo Bertè, il sommelier, un altro che come
Sangiorgi è entrato con lo spirito giusto, ha sposato il progetto, ed è cresciuto tantissimo. A
Pisacco ora abbiamo
Andrea Asoli come chef di cucina, è molto bravo, lo seguivo da anni, ha capito bene cosa vogliamo fare. Al
Dry Milano abbiamo ormai consolidato un sistema che funziona, il che dopo la recente uscita di
Simone Lombardi ci ha consentito di proseguire senza problemi con il suo vice,
Timur Isayev, un ragazzo di origine russa che lavora là da sempre; da quando ha preso in mano le redini è chiaramente ancor più motivato. Al
Berton al Lago, sul Lario, in un favoloso hotel creato grazie alla famiglia
Contreras, il mio executive
Raffaele Lenzi sta svolgendo uno straordinario lavoro, subito premiato dalla stella, anche grazie al
food&beverage manager Stefano Gaiofatto, già con
Lopriore. Sono tutti ingranaggi di un meccanismo solido, complesso; ognuno deve funzionare a dovere. E mi piace ricordare anche
Alessia Rizzetto, che si occupa della comunicazione».

Andrea Berton (foto Marco Scarpa)
A proposito del tuo staff: girano molti racconti sul tuo carattere duro, da sergente di ferro. Quanto c'è di vero? E quanto è necessario fare così?
«Le leggende metropolitane è giusto che ci siano: raccontano qualcosa, anche se magari sono romanzate. Ma uno deve guardare al progetto, a cosa si sta costruendo. Chiaro che con la brigata sono esigente, le regole sono precise: servono a raggiungere determinati obiettivi. Rivendico questo atteggiamento: sono concreto, guardo ai risultati. In tanti sono fenomenali a parole; io parlo con quello che ho realizzato».

L'Alter egg studiato da Berton per gli 11 hotel italiani MGallery by Sofitel
La prossima tappa sarà a Cefalù.
«Intanto ad aprile siamo partiti con il progetto
Alter egg, il mio finto uovo per un nuovo concetto di prima colazione, disponibile negli 11 hotel italiani
MGallery by Sofitel (all’apparenza un uovo all’occhio di bue con bacon, in realtà yogurt di albume con miele di acacia, mango e gelatina al posto del tuorlo, chips e polvere di pancetta, semi di lino e zucca tostati,
ndr). Poi, arriverà Cefalù, con il mio ristorante all'interno del rinnovato
Club Med, che era chiuso dal 2005: un posto meraviglioso, ci ho fatto recentemente un sopralluogo; è magico, con piattaforme in tek sull'acqua... Io lì nel resort seguirò la cucina del
Palazzo Lounge: ho ideato piatti originali, ossia quelli della cucina siciliana ma totalmente ripensati con spunti personali. Mi piace l'idea di confrontarmi con una tradizione, quella isolana, che conosco bene ma ho poco considerato nella mia carriera. In realtà vi ho trovato tantissimi imput interessanti, oltre che prodotti meravigliosi; così ho focalizzato il menu su pomodori, melanzane, mandorle, pistacchi... Si parte il 2 giugno con l'inaugurazione, l'apertura al pubblico è prevista il 12, resident chef sarà
Matteo Prandi, che è stato qui con noi per cinque anni come secondo sous chef e proprio lunedì scorso è sceso a Cefalù, appunto».

Rendering del nuovo Club Med di Cefalù
E dopo Cefalù?
«Ho altri progetti in vista per il 2019, sia in Italia che all'estero, ma non voglio parlarne prima di chiudere gli accordi».
Facciamo un passo indietro. Com'è eri prima e come sei ora? Ossia: quanto sei cambiato?
«C'è una consapevolezza personale diversa, va di pari passo con l'evoluzione della mia cucina, orientata in modo più determinato sul mondo vegetale, che 10 anni fa non consideravo più di tanto. È stato per me un passaggio fondamentale, un cambiamento di prospettiva; sono andato a recuperare prodotti cui prima non davo il valore che attribuisco loro adesso. Oggi penso che un asparago debba vivere di luce propria, come un radicchio, un'insalata. D'inverno utilizzo la rosa di Gorizia e la lascio intera, vorrei dire "viva", il più naturale possibile, mentre una volta la sfogliavo tutta e la abbinavo ad altri ingredienti. Mantengo inalterati i prodotti legati alla terra, ed è stata per me una novità. Inoltre ho alleggerito i piatti, utilizzando meno grassi animali».

Interni del ristorante Berton a Milano (foto Marco Scarpa)
Tu hai dato molto a Milano. Ricordo che quando apristi il Berton mi dicesti: "Potevo andare all'estero, ma ho scelto questa città. E ho anzi scelto di scommettere sulla nuova Milano", dove infatti sei. Che rapporto hai ora con la metropoli lombarda?
«Sono molto molto soddisfatto, in particolare di aver osato scegliere questa area di Milano, Porta Nuova, che è bellissima. Sta regalando a tutta la città un'energia incredibile, ha ancora grandi margini di crescita, e io mi trovo al nocciolo di tale sviluppo. Mi ricordo quando ho aperto, e tutti dicevano che ero matto. Ragionai come sempre, ossia come feci al tempo di
Marchesi: "Mi pare una buona idea, ci provo. Se andrà male, vorrà dire che chiuderò". Non ho chiuso, anzi. La mia volontà era di aprire in un luogo che ancora non esisteva, per partire da zero. Così è stato».

Brodo di prosciutto crudo, merluzzo sfogliato, pane al prezzemolo e rapanelli (foto Marco Scarpa)
Al Trussardi sei stato il primo a sdoganare un concetto di alta cucina legata al mondo della moda, delle griffe; con Pisacco hai introdotto la bistronomia d'autore; con Dry Milano l'abbinamento pizza&cocktail; qui al Berton prima degli altri hai pensato di puntare sui brodi e sul mondo vegetale, oltre a scommettere sulla nuova Milano. Senza contare che già al Café Trussardi hai proposto l'hamburger gourmet, oggi copiatissimo. Sei un trendsetter, insomma.
«Ah vero, i brodi... Non ci pensavo più, per me sono già un dato acquisito, ma in effetti è una tendenza che ho lanciato io. Sai, io voglio sempre fare qualcosa che mi piace, idee innovative che mi stimolano».
Più intuito o più studio?
«Entrambe le cose. Bisogna immaginare le cose, farsi un'idea, ma poi approfondirla, analizzarla. Non amo improvvisare. Al cliente voglio poter dare qualcosa del quale sono certo. Direi che in questo mio atteggiamento c'è molta serietà».

Andrea Berton a Identità Milano
Tu sei celebre e stimato. Ma non ti sembra che questa tua grande capacità di innovazione non ti sia sufficientemente riconosciuta?
«I riconoscimenti sono legati a tanti fattori: bisogna dare tempo al tempo, senza essere troppo impulsivi. Se t'impegni bene, gli allori arrivano.
Ducasse mi disse un giorno: "Per avere successo occorrono tre elementi: lavoro, lavoro, lavoro". Sono d'accordo».
In questo sei molto friulano...
«In pieno. Nel dna friulano c'è l'impegno, la determinazione, la disposizione alla fatica, la serietà, la caparbietà. Persino la cocciutaggine, che spesso ti consente di superare gli ostacoli».
Cosa ti piacerebbe creare, e non ci sei ancora riuscito?
«Il mio sogno, ancora da strutturare, è un ristorante dove il cliente interagisca con la cucina, non sia fermo al tavolo ma mangi seduto via via in varie postazioni, ognuna dedicata a un piatto, dove questo viene preparato live e raccontato. Insomma, un luogo dinamico, in movimento. M'immagino in futuro un locale con queste caratteristiche: secondo me può essere divertente».
Cosa manca alla cucina italiana per diventare quella di riferimento a livello mondiale?
«Nonostante tutto, non riusciamo sufficientemente a fare squadra. Siamo troppo individualisti, così non sfruttiamo appieno le nostre potenzialità. Però la situazione è migliorata: c'è
Massimo Bottura, un grande che stimo, sta portando avanti un lavoro senza precedenti per la nostra tavola, e quindi per tutti noi, credo che il suo sforzo vada sostenuto e lui vada ringraziato; ci sono gli
Ambasciatori del Gusto, coi quali stiamo mettendo in piedi cose importanti; c'è
Identità Milano, ormai l'evento di punta in Europa, capace di giocare un ruolo chiave nel far conoscere la crescita della nostra tavola. Ma occorre ancora qualcosa, per conquistare la leadership; altrove riescono meglio a unirsi; dobbiamo superare le invidie, perché abbiamo tutto. Dobbiamo slegarci dagli stereotipi "lasagna e spaghetti"; già in buona parte è avvenuto, un tempo quando andavo all'estero mi chiedevano di cucinare la pasta al pomodoro - che va bene, intendiamoci. Il problema era che la nostra cucina era percepita come
solo quello - Oggi non accade più così».

Michelangelo Mammoliti a Identità Milano 2017
Chiudiamo: due o tre indirizzi di buona cucina, in Italia.
«Ho mangiato molto bene a Cefalù in un posto nuovo, anzi che ha cambiato recentemente sede:
Cortile Pepe. È stata una scoperta. Poi stimo molto
Michelangelo Mammoliti, siamo sulla stessa lunghezza d'onda per filosofia di cucina e stile. E poi ti segnalo un giovane poco conosciuto, che ha lavorato con me, ma anche in Francia e da
Enrico Crippa, e presto aprirà un locale tutto suo vicino ad Avellino. Si chiama
Domenico Marotta ed è bravissimo. Segnati il nome, perché tra cinque o sei anni sarà sulla bocca di tutti».
Intanto nella nostra bocca, tra le nostre fauci, sono finiti i piatti del nuovo menu di Andrea Berton. Ma questo ve lo racconteremo nei prossimi giorni.