Sarà stato lo champagne. Sarà che l’atmosfera era così piacevolmente diversa da quella – spesso un po’ troppo algida, impettita – di tanti ristoranti di alta cucina. Fatto sta che a un certo punto un pensiero ha fatto capolino nella mente di chi scrive e da tempo s’arrovella sul futuro della ristorazione italiana: se fosse proprio questo un abbozzo di possibile modello futuro?
Scacciamo subito questa elucubrazione davvero impegnativa: di certo da Chinappi, semplice semplice, ci siamo trovati magnificamente bene. Parleremmo a pieno titolo di “periodo di grazia”, se avessimo uno storico delle tavolate che si sono succedute qui negli anni, dal momento del trasferimento dell’insegna a Roma, nel 2006.

Federico Delmonte al lavoro

Stefano Chinappi con la moglie Elena, che lo aiuta a curare la sala
Mancando di tale conoscenza del pregresso, ci sembra un azzardo dichiarare a piene lettere sentenze di tal fatta: probabile comunque che non si vada lontano dal vero, perché in via Augusto Valenziani 19 s’assiste a un equilibrio (instabile? Lo si vedrà) che risulta raro ovunque. E prezioso. Ossia quello che vede a un oste vecchia maniera, di quelli che possono persino apparire invadenti ma ai quali ti affidi con piacevolezza e relax, affiancarsi uno chef “moderno” senza se né ma, capace di inframmezzare piatti di prodotto, ricette che fanno parte del bagaglio
evergreen del patron, con sue preparazioni creative di livello assoluto. Come
Capesanta, cocco, cipolla di Suasa e lime: spettacolare, complessa, vivida, profonda, elegante.

Stefano Chinappi e Federico Delmonte
C’è una premessa doverosa: un locale del genere, solo a Roma. Perché
Stefano Chinappi incarna magnificamente il ruolo del taverniere capitolino, cosa che fa andare in sollucchero turisti del gusto come noi, mentre potrebbe apparire agli autoctoni fin troppo pittoresco,
agé. Quello di questi ultimi sarebbe però un pensiero distorto: perché si fermerebbe alla superficie delle cose, al brusio di fondo, senza giungere all’essenza.
Quali devono essere i compiti del buon oste 2.0, sopravvissuto alle tendenze contrarie degli ultimi anni e quindi pronto a incarnare forse una prospettiva futura? Garantire la piacevolezza della serata, concetto vasto che va dalla capacità d’essere empatici, alla qualità del servizio – cordiale se non puntuale – fino a quella della cucina, che farà bene innanzitutto a proporre materia prima di primissima qualità e magari qualche piatto senza tempo, di golosità notoria, di resa sicura. Il che non vuol dire sdraiarsi sulla banalità piaciona o rinunciare a priori all’eleganza del gusto: ma presentare piuttosto preparazioni signature che costituiscano il sicuro approdo anche laddove, come qui, ai fornelli sia poi subentrato un bel talento contemporaneo, col suo seguito di sapori complessi e più ricercati.

Polpo verace secondo tradizione Chinappi
Chinappi oggi è questo, e per ciò ci piace molto. Assaggi specialità magistrali ma senza tempo, come lo splendido
Polpo verace secondo tradizione Chinappi, con olio al prezzemolo e limone, patate e pomodori – chi scrive ne ha gustato uno paragonabile solo in Galizia, che è patria d’elezione gastronomica del cefalopode – o lo
Spaghettoro con telline, o la
Sogliola, accompagnata da una salsa delicata ma saporita a base di olio extravergine di Itrana e limone di Amalfi: sono esempi indicativi di come proporre ricette d’alta qualità però con una formula più immediata,
friendly. Abbiamo bisogno anche di ciò.

Delmonte prepara i Gamberi gobbetti di Ponza, olio, limone, menta, gelatina al gin. Grande classico tra i crudi di Chinappi

Capesanta, cocco, cipolla di Suasa e lime
Il plus è, oggi, il ragazzo che sta ai fuochi.
Federico Delmonte, marchigiano di Fano, classe 1981, ha talento da vendere. Studi all’Alberghiero di Pesaro, nei suoi trascorsi vanta esperienze al
Dorchester e allo
Zafferano di
Locatelli a Londra, quindi una piccola selezione di eccellenze italiane:
Pagliaccio, Povero Diavolo, Magnolia, Pinchiorri. Gode di buona e giustificata fama:
Anthony Genovese avrebbe rivendicato nei giorni seguenti, chiacchierando con lo scrivente, il fatto di averlo formato, «è stato un mio allievo» in via dei Banchi Vecchi 129/a, nell’Urbe, ci ha detto. Segno che è stimato. A ragione: della capasanta (macerata nello champagne) abbiamo detto, ma di altissimo livello sono anche il
Carpaccio di volpina, finocchi e anice stellato, eccezionale, o le
Mazzancolle di Formia, succo di amarena e aceto di lampone, accompagnate da un estratto di anguria condito con olio, sale e pepe.

Carpaccio di volpina, finocchi e anice stellato
Dimenticavamo di sottolineare: da
Chinappi si beve alla grande e si mangia ovviamente pescato favoloso, merito anche dei vincoli parentali:
Stefano è figlio di quel
Franco storico ristoratore a Formia, dunque conosce le prelibatezze marine a menadito. Compra giornalmente il pesce proprio all’asta di Formia da
Gianni Purificato, marito della sorella
Sabrina. Insomma: prodotto top. Così
Delmonte, dove mette le mani, sa che c’è qualità assoluta di fondo. Lui riesce persino ad arricchirla.

Seppia scottata, spinacino e bergamotto

Colori: dessert con mandorla, sedano, carota e cardamomo
Da
Chinappi si sta alla grande, si diceva fin dall’inizio: se si è colti da un temporale improvviso, com’è capitato a noi, si finisce la serata a veder sciabolare bottiglie di champagne -
Chinappi ne è maestro - in compagnia di tipi intriganti come
Gaetano Verrigni, quello della pasta, o l’estroso chef
Edoardo Ferrera, che i buongustai milanesi coi capelli grigi ricordano bene al
Don Carlos, in tempi eroici. Che volete di meglio?
Chinappi-Delmonte è una gran coppia, diversissima ossia complementare: approfittarne finché dura, ci auguriamo a lungo.