«René è riuscito a vedere la cucina nordica dove neanche i nordici la vedevano»: tra le tante cose che si sono dette e scritte, l’introduzione tranchant con la quale Paolo Marchi ha annunciato sul palco l’arrivo del numero uno al mondo, René Redzepi da Copenhagen, è forse la migliore possibile. Celebra così, con immediatezza e semplicità, l’acume semplice e perfetto di uno scopritore vero, la brillantezza di un Indiana Jones del gusto che punta alla ricerca più che all’avventura.
«Se oggi cuciniamo le foreste, lo dobbiamo a lui» dice ancora Marchi in una sorta di iperbole che rende l’idea della rivoluzione silenziosa <i>redzepiana</i>, perché nata e sviluppata tra le gelide e ovattate lande del Grande Nord. Oddio, gelide mica troppo, se è vero che il titolo della lezione del più bravo di tutti è stata “L’inverno è stato mite”, a dimostrazione che la varietà (di climi, di culture, in fondo di qualsiasi cosa) regala ricchezza, che le contaminazioni sono fertili anche quando il terreno è ghiacciato: l’importante è che non sia ibernata pure la mente. Dai noi fa freddo, invece in Scandinavia quest’anno “l’inverno è stato mite”, si diceva: punti di vista certo relativi (a quanto corrisponde la mitezza made in Denmark?) ma che consente al <i>Noma</i> (ossia alla “cucina nordica”: è un acronimo) di lanciarsi in voli pindarici inusitati attraverso i mille prodotti “strani” di Redzepi, grazie al clima favorevole mai così abbondanti e di gran qualità. «C’è stata un’esplosione di licheni e muschi e sono buonissimi: sono dolci o amari, sanno di funghi, di oceano…» ed è come se lo chef gridasse che il re è nudo, perché in venti parole sa destrutturare tutti i nostri pregiudizi culturali e spiegare ai cervelli pronti ad apprendere che non c’è alfine nulla di strano, «vedevamo le renne che li mangiavano, sono mammiferi e ci siamo chiesti: perché noi no?».

Intervento applauditissimo a Identità Milano (foto Alessandro Castiglioni)
Se superi le barriere, se scavalli la collina del risaputo, ti si aprono vere praterie e puoi allora lanciarti al galoppo spinto dal vento dell’inesplorato («Quello che sperimentiamo è ignoto anche a noi, non abbiamo alcun punto di riferimento, quindi è importante progredire e rinnovarsi sempre, sapendo di poter conseguire un successo ogni trenta fallimenti»). Ecco anatre selvatiche con petali di rosa in salamoia, foglie di faggio caramellizzate e acetosella; germogli di pino che sanno di pompelmo, o altri che profumano di limone e che, insieme a una bacca che ricorda l’oliva, la mandorla e la frutta, arricchiscono cubetti di calamaro coi loro sentori agrumati; poi licheni fritti come fossero patatine e cosparsi di polvere di fungo porcino, da sgranocchiare magari bevendo una
flûte di champagne, o intingendoli in una bottarga di stoccafisso immersa nell’olio, sorta di maionese senza uova; oppure, ancora, diversi muschi – questi altri crescono sugli alberi ma sanno di mare – che con la loro straordinaria acidità fanno da contrappunto goloso a un fegato cotto immerso nel burro, alcune fette di rapa a dare piccantezza; o ulteriori aromatizzano con i loro sentori di foresta uno stufato di pere e indivia, si aggiunge quindi un muschio islandese che cresce sulla roccia vulcanica, ha un sapore leggermente amaro, delizioso al palato, molto nutritivo, ed è stato nixtamalizzato, ossia trattato con una antica tecnica sudamericana che usano da secoli anche dalle parti di Reykjavík: global e local insieme,il mondo è più piccolo ma riscopre le proprie peculiarità.
Sono geni come
Redzepi a essere in grado di frullare insieme traendone nuove sintesi. Il bello è che il tutto (il dolce delle pere, l’amaro dell’indivia e dei muschi nixtamalizzati…) serve a completare un ragù di fegatini d’anatra, che apportano mineralità: sorta di “Bolognese alla scandinava”, spiega René, che abbatte così – tra Italia Islanda Danimarca e Brasile - le ultime barriere della nostra diffidenza. E ci spalanca orizzonti infiniti, entusiasmanti.