Mettiamola così: è come se Maida Mercuri, grande e raffinata ostessa, avesse capito – non me ne voglia il nuovo chef, il bravo Ivan Milani – che in fondo è lei l’anima profonda de Al Pont de Ferr. O ancor per meglio dire, questa risiede nell’atmosfera che la Mercuri ha saputo creare qui da anni: si sa che s’arriva in un luogo del buon gusto, dove si mangia comunque bene, con l’uno o con l’altro in cucina, a vari livelli, ossia prima con l’estro di Perdomo, poi con l’inatteso nuovo brio che ha dimostrato Fusari nei suoi due anni abbondanti, ora col cocktail tra tradizione piemontese e spunti cosmopoliti che è il parziale punto d’approdo della nuova fase, con Milani appunto.

"The way we were... Il Ponte prima del Ponte, all’epoca della mala (foto Al Pont de Ferr)
Non che quest’ultimo, peraltro a solo poco più di un mese dall’insediamento, già non faccia egregiamente il suo lavoro: alcuni suoi piatti ci sono sembrati deliziosi, altri interessanti, altri ancora bisognosi di ulteriore messa a punto, e sarebbe strano il contrario, dopo così breve tempo. Ma
Al Pont de Ferr, in definitiva, si coniugano concetti moderni – chi sta in cucina ha un ruolo importante, definisce lo stile delle preparazioni che finiscono in tavola, è insomma alla ribalta – con modelli antichi, che prevedono la forte presenza del patron, che assicura continuità
al di là e al di sopra dei fornelli. Non è monarchia, come da
Cracco,
Berton e compagnia. E’ perlomeno diarchia. Quanti sono i ristoranti d’alta cucina a caratterizzarsi per tale tipo d’impostazione? A Milano nessuno, se togliamo alcuni locali legati a case di moda:
Armani,
Ceresio 7, in parte il
Trussardi alla Scala (caso a sé, specialissimo, è quello de
Il Luogo di Aimo e Nadia).
Ovverosia, là dove predomina il brand, lo chef s’adegua (Aimo, a ben pensarci, è potenzialmente un brand di suo); altrimenti, è la toque a prevalere, e il cambio della guardia diventa un evento traumatico che mette a repentaglio la sopravvivenza dell’insegna. Ecco: anche Maida Mercuri è a sua volta un brand, da lei compri un pacchetto-serata che prevede la location particolare, Vecchia Milano con vista sui Navigli; una cantina da urlo, da cui l’ostessa estrae chicche notevolissime; e quindi anche la cucina, della quale Maida si fa in qualche modo garante.

Maida Mecuri nella sua cantinetta personale
Per questo il
Pont ha potuto affrontare più avvicendamenti ai fornelli senza fare un plissé, o quasi. E’ il subentrante, in fondo, a essere chiamato a entrare in sintonia con un indirizzo che di per sé ha storia sufficiente – 30 anni, festeggiati l’anno scorso, come abbiamo raccontato qui:
Vittorio Fusari: la mia Milano – e dunque autorevolezza tale da potersi permettere di chiedergli questo sforzo.
Peraltro, al di là di tutto quanto abbiamo detto, aver chiamato Milani, reduce da un’esperienza torinese conclusasi male, ci sembra sia stata una brillante trovata, per più motivi. Per lo spirito di rivalsa che verosimilmente alberga nell’anima di Milani. Perché ha l’età giusta: classe 1971, né ragazzino di belle speranze né veterano di tante battaglie, insomma una sorta di terza via, intermedia, tra Perdomo e Fusari. Perché è un professionista da sempre stimato, ma non ancora consacrato, e la Madonnina è il posto giusto per il salto definitivo. Perché Milano si merita di poter mangiare un delizioso vitello tonnato: in una città dove sushi e dim sum invadono fin troppo la scena gastronomica, ritagliare spazio per la migliore cucina regionale italiana – e Milani innerva il suo stile con ottime dosi di piemontesità – pensiamo sia cosa buona e giusta. Infine, perché anche il trend generale pare procedere in tal senso: avanza una riscoperta della classicità tradizionale d’Italia (e cosa c’è di più classico, del buon vecchio Piemonte?) ma in forme e concetti nuovi, contemporanei e dunque anche contaminati.

Ivan Milani nella cucina "ufficiale" del Pont
Il nuovo chef deve ancora entrare del tutto in sintonia con il capoluogo lombardo; si vede che quello che abbiamo definito “approdo parziale” della sua cucina è frutto di lavoro ancora in fieri. Dietro sta la ricerca della giusta dose tra i vari elementi della sua tavola, l’equilibrio di stile che va perfezionato proprio tenendo conto/adattandosi al nuovo contesto. Non a caso lui studia la città: “Ho ancora avuto poco tempo per girarla, per scoprirla meglio: sono qui da poco, è stato un mese intensissimo, sono uscito solo due sere, una per cenare con
Diego Rossi, l’altra per l’anniversario con mia moglie».
Però… «Però ho già notato alcune differenze di rilievo rispetto a Torino. Almeno tre. Prima: qui il cliente si affida molto di più, dice allo chef: “Stupiscimi!”. Seconda: la clientela di un ristorante di questo livello risulta assai trasversale (è come se la galassia gourmet, qui a Milano, si sia via via allargata fino a comprendere settori più vasti e dunque sfaccettati, ndr), il che comporta peraltro qualche problema, non sai mai quanto alta il commensale voglia la cotoletta, quanto desideri siano cotti pasta e riso, e così via». E la terza? «Beh, qui lasciano la mancia», sorride sornione. Che poi è questo il segreto de Al Pont de Ferr: gira gira, finisci la serata allegro.