«Marc Meneau mi raccontava di quel ragazzo che un giorno bussò alla sua porta. Era catalano, si chiamava Ferran Adrià e voleva imparare a cucinare. C’è riuscito. E’ un episodio che mi ha colpito. Ecco, io guardo a cosa hanno fatto in pochi anni Niko Romito o Enrico Crippa, e penso allora: se ti impegni a fondo puoi arrivare molto in alto. Anche alle tre stelle» racconta Michelangelo Mammoliti e in questa frase c’è tutta la rigorosa perseveranza, la ferrea ambizione, la ferma dedizione al lavoro di questo giovane chef dal talento cristallino eppure ancora magmatico, che impiatta se stesso e la propria straripante creatività a La Madernassa.

La Madernassa con piscina
Che il ristorante si trovi a Guarene, al confine tra Roero e Langa, è in fondo solo un’informazione di servizio, utile per impostare il navigatore («I prodotti sono di qua, ma i gusti e le tecniche internazionali»). Perché
Mammoliti non scende a patti col territorio – che peraltro non snobba: «Mi serve a trovare la giusta armonia». Ha mentalità cosmopolita, coniuga il mondo con la propria spiccata personalità, non gli manca certo un'ottima considerazione di sé stesso. Le sue idee sono un caleidoscopio di stimoli differenti: determinazione teutonica, scuola francese, ricordi piemontesi (è nato a Giaveno, paese che ha dato i natali anche a
Matteo Baronetto), esperienze orientali, sovrastrutture che poggiano su solide fondamenta legate alla memoria gustativa di casa, dunque a una tradizione essenzialmente mediterranea, i nonni paterni sono d’origine calabrese e gestivano l’
Americano ad Avigliana, dove lo chef ha mosso primi passi.
Lui frulla tutto senza timori reverenziali, anche in ardita successione all’interno dello stesso percorso degustazione, e a chi gli chiede conto di certi sballottamenti palatali fa spallucce, citando di nuovo Meneau, uno dei suoi maestri con Marchesi, Baiocco, Ducasse, Gagnaire e Alléno: «Mi diceva sempre che ogni piatto deve essere differente dall’altro, altrimenti l’esperienza perde colore. Amo i picchi, io li chiamo le bombe». Squassa senza dubbio la placida golosità langarola, sempre soddisfacente ma a volte un poco monotona.

Patron Fabrizio Ventura, secondo da destra, con lo staff di sala
Patron
Fabrizio Ventura – bella la sua intuizione di dare fiducia al giovane chef, anzi coraggiosa – ne segue l’evoluzione come chi si trova in casa un
enfant prodige ed è chiamato a dosare freno e acceleratore, in un virtuoso gioco di equilibri. Lo chef peraltro ha compiuto 32 anni proprio ieri (auguri!), bamboccione non è di sicuro ed ha acquisito sufficienti
savoir faire e consapevolezza di sé per imboccare la propria strada e capire anche da solo su cosa deve lavorare: «Proficuo e fatale fu il mio incontro con
Bob Noto, che mi intimò: “Devi sottrarre”. Anche
Alléno me lo diceva: “Mira all’essenziale”. Lo faccio sempre di più».
Ed è questo oggi il paradosso del Mammoliti che abbiamo recentemente assaggiato: così bravo (tecnicamente è un portento) da apparire a volte eccessivo, così fantasioso da risultare spiazzante. Lui la racconta così: «Quando ero in Francia ogni piatto era composto da tanti elementi ed occorreva trovare un equilibrio difficile. Io mi ci perdevo, avevo 25 anni. Ora penso semmai a togliere, lavoro su questo aspetto: pochi ingredienti e gusto complesso. Va bene proporre una melanzana e stop, o quasi: ma dev’essere comunque una sinfonia di profumi. Vado alla ricerca dell’aroma perfetto».
Le vie del gusto sono infinite e passano magari anche dalla Thailandia, nuovo recente innamoramento di
Mammoliti reduce da un viaggio da quelle parti: gli echi thai pervadono così il nuovo menu estivo de
La Madernassa, una presenza così forte da apparire a tratti persino prevaricatrice, «amo la cucina dei Paesi asiatici, così immediata! Quella thailandese si ricollega poi alle mie origini calabresi: c’è il piccante, la persistenza aromatica, l’agrumato. Prendo il lemon grass o lo zenzero e mi ricordo di quando da piccolo, in vacanza, passavo le ore a raccogliere i mandarini».
Non gli basta, il suo presente è dedito all’esplorazione continua: «Ora voglio andare anche in Sud America» annuncia, al che vien da pensare ai tanti chef italiani, anche giovani, che avrebbero bisogno di lavare i panni nel Mekong o nel Paranà per sprovincializzarsi un poco. Mammoliti possiede invece una tavolozza di colori già infinita, eppure è vorace, la sua sete di conoscenza non sembra placarsi: «Nella mia biblioteca ho 1.473 libri di cucina. Voglio arrivare 5 o 6mila almeno, il che vuol dire una decina al mese», per i prossimi 35-40 anni calcoliamo a spanne. Tutto iniziò con Michel Bras, «avevo 14 anni, comprai un suo testo. Mi aprì un mondo». Una sorta d’imprinting che si coglie ancor oggi agevolmente nello stile dello chef. Quando tutto questo bagaglio si sedimenterà appieno, chi lo fermerà più?

Impressiona anche il metodo con il quale lo chef incanala il suo scoppiettante istinto in un sistema già ben regolato: «Lavoro sul ricordo, lo spunto può venire dalla mia infanzia, dalle mie esperienze di lavoro o da un viaggio». Fondamentale è la percezione di un profumo, «collaboro con 4 psicologi. Il luogo in cui si fissa l’aroma percepito è il rinencefalo, che è connesso all’ippocampo…». In parole povere, recuperare un odore significa suscitare emozione: «Prendo le ricette della mia famiglia. Inseguo quegli aromi. Poi, quando sono a buon punto, faccio assaggiare il piatto alla mia compagna,
Simona: è suo il primo giudizio. Quindi chiamo mio fratello: “
Antonino, vieni qui tra due ore, voglio capire se il carciofo che sto cucinando è uguale a quello di nonna”. Da lei vorrei recuperare anche la magia nel preparare gli agnolotti: stendeva la pasta sul marmo bianco e la condiva con olio extravergine. Anche io farò così: un raviolo puro, in bianco».

Mammoliti a Identità Milano 2017 (foto Brambilla-Serrani)
E’ questo il
Mammoliti più familiare e rassicurante, quello che dà vita a piatti come
Spaghetti Bbq, squisiti, la pasta cotta prima in un’estrazione di prosciutto di Cuneo, poi al barbecue, «è un omaggio a mamma
Katia, un ricordo delle braciole di maiale che mi preparava». Più complicato è l’approccio con ricette che recuperano spunti estremi, di altri mondi gastronomici: «I primi sei mesi qui a Guarene sono stati difficili. Ho difficoltà a riprodurre un piatto, preferisco creare: la mia battuta di fassona era estremizzata, suscitava battibecchi». Spara acidità e amarotico, accosta l’impensabile: è un luna park di stimoli. Dice: «Non cerco l’equilibrio perfetto, ma l’imperfezione nella perfezione. Standardizzare un piatto vuol dire negare l’emozione».

Lui crede nel gesto del cuoco cucinante, nella mano di giornata: «Do anche spazio ai miei collaboratori. Io preparo la ricetta base, poi lascio agire: un giorno il pomodoro risulta un po’ più acido del solito, l’altro serve più salvia… E’ giusto che apportino le necessarie modifiche. Poi assaggio tutto, tre volte: la prima per preparare il palato, la seconda per percepire il sale e l’acido, la terza è quella definitiva. Se vien voglia di proseguire, il piatto funziona».
Mammoliti distribuisce al suo staff un vademecum di norme. Severissime. Vi si legge, tra le altre cose: “Tutto deve essere perfetto! Non mediocre, perfetto. Se non è perfetto si ricomincia da zero. In 30 mesi abbiamo conquistato una stella Michelin, dopo due anni di sacrifici qui e 15 anni complessivi durante i quali ho sempre cercato di migliorarmi, ogni giorno. Continuo a farlo. Sappiate che non ho intenzione di fermarmi. Regolatevi di conseguenza». A Guarene c’è una Ferrari che romba, pronta a mordere l’asfalto. (La nostra cena, nella fotogallery firmata Tanio Liotta).