Il progetto è ambizioso e il titolo non può lasciare dubbi: Quando un piatto fa storia, sottotitolo L’arte culinaria in 240 piatti d’autore per l’editore Phaidon, affiancato in Italia da L’ippocampo. Sette i curatori: Susan Jung, Howie Kahn, Christine Muhlke, Pat Nourse, Andrea Petrini, Diego Salazar e Richard Vines, mentre la prefazione, ottima, porta la firma di Mitchell Davis.
Non è mai facile, in nessun campo, non è mai una passeggiata scegliere il meglio perché ci si espone alle critiche degli esclusi e di chi ritiene di saperne abbastanza da sottoporre una classifica ad attento esame. Cosa alla quale, in casa Identità, non ci siamo sottratti né Gabriele Zanatta né il sottoscritto perché il piatto è troppo ricco, troppo ambizioso per ignorarlo.
Il lato positivo di questa fatica è nella decisione di fissare il meglio dandogli una profondità temporale andando indietro nel tempo. Ma non come potremmo aspettarci. Con ogni scelta firmata da uno dei sette autori, tra loro nessun francese nato in Francia detto di passaggio,
Andrea Petrini ha radici italiane ma lunga residenza a Lione, trovo singolare che il primissimo piatto d’autore citato dati 1686 e sia il Gelato.
Il primo passo fa testo e questa scelta denuncia il grande limite del volume una volta che la casa madre inglese ne cede i diritti fuori dal Regno Unito. E’ pensato per il mondo di lingua inglese, al di là e al di qua dell’oceano Atlantico, meno per il mondo nella sua globalità. Quel gelato portato a Parigi circa 325 anni fa dal
siciliano
Francesco Procopio dei Coltelli alias
Procopio Cutò, titolare del caffè
Procope, sembra messo lì perché non si possa dire che il mondo latino sia poco considerato. Poi si salta al 1798 e alla Pernice Bianca di
Thomas Rule a Londra, suo il più antico ristorante londinese, il
Rules.
A seguire Marie-Antoine Careme a inizio Ottocento, prima con il Vol-au-vent e poi con la Millefoglie che non inventò, la ricetta originaria data 1733, ma che sublimò. Ovviamente noi italiani debuttiamo con una pizza, la Margherita, datata 1889 e firmata Raffaele Esposito. Un anno ancora ed ecco la Coda alla vaccinara di Checchino al Testaccio, Roma. Sempre nella capitale la terza ricetta italiana, le Fettuccine all’Alfredo, 1914, che gli americani hanno sì lanciato in orbita, ma alla lunga sputtanato con salse che noi non possiamo accettare.

La pizza all'ananans, in scatola, nella sua versione originale, quella del 1962 del ristorante The Satellite di Chatham-Kent in Ontario (Canada)
Più si torna indietro nel tempo e più difficile è cogliere la forza originaria di una preparazione, certo che noi italiani fatichiamo a considerare la famigerata Pizza all’ananas come uno dei 240 piatti che hanno fatto storia. Sì, proprio quella inventata nel 1962 nella ragione canadese dell’Ontario da due fratelli arrivati dalla Grecia, non una delle versioni italiane contemporanee,
Renato Bosco o
Franco Pepe ad esempio. Ed ecco le Hawaii con il Poke e il Loco Moco così come Hollywood a Los Angeles fa storia con la Chiffon Cake e la Cobb salad. Sono scelte, come con la Banana Foster di New Orleans, però nell’insieme, come mi ha ricordato
Gabriele Zanatta, avrebbero ben più da dire la Francia e l’Italia. Non sono citati
Apicio e colui che
Ferran Adrià considera il più grande cuoco di ogni epoca,
Bartolomeo Scappi.

100 strati di lasagne, Mark Ladner a Del Posto in New York
Visto che si parla di mondo, quello arabo è pressochè inesistente, l’Africa lo è del tutto e la stessa India è mediata dai colonizzatori inglesi. E noi italiani penso ci sentiremmo molto ben rappresentati dalla Zuppa etrusca e dagli Spaghetti al cipollotto di
Aimo Moroni, dal Risotto alla Bergese di
Nino Bergese, dagli Spaghetti alla lampada di
Angelo Paracucchi, dal Savarin dei coniugi
Cantarelli. E se si promuove la Pizza hawaiana si dovrebbe avere il buon senso di includere anche la Margherita sbagliata, tra l'altro una ricetta ragionata e non nata per caso come del resto molte altre al pari di quelle frutto di un errore. Una per tutte: Oops! Mi è caduta la crostata al limone di
Massimo Bottura.
Per quanto questo libro debba trovare spazio nella libreria di un gastronomo, sembra sia mancato un lavoro di approfondimento storico tra chi lo ha curato, rivelandosi così, soprattutto, una somma di gusti e preferenze personali. Più veritierio come titolo sarebbe stato qualcosa come Quando un piatto fa piacere. E a volte pure storia.