21-09-2020

Che Bettelmatt farà

È partita la marchiatura delle forme del prezioso formaggio, detto Oro bianco dell'Ossola. Origini del mito e note d'attualità

Un prodotto diventa un mito grazie a tre caratteristiche: esclusività, qualità e narrazione. Elementi certamente presenti e ben radicati nella storia del Bettelmatt, uno fra i formaggi più amati e affascinanti d’Italia.

Lo definiscono: “Oro bianco dell'Ossola”. Oppure: “Rolls Royce dei formaggi italiani”. O: “Il formaggio dei Walser”. Insomma una vera rarità, per questo ancora più ricercata e apprezzata. Dietro alla produzione di queste piccole tome - al massimo da 6 chili, prodotte in meno di 2 mesi in 7 piccoli alpeggi sopra ai 2.000 metri in alta Val D’Ossola - ci sono storie, tradizione e tanto, tanto, lavoro. E in questi giorni è partita la marchiatura delle forme, che proseguirà fino alla metà di novembre a cura del Associazione dei produttori del formaggio Bettelmatt. Un momento fondamentale per certificare l’originalità, l’alpeggio di produzione e la qualità del Bettelmatt 2020.

Tutto ha inizio quando le mucche, dopo vari “campi base”, approdano negli alpeggi più alti dei comuni di Baceno, Premia e Formazza. Siamo nella punta del Piemonte che si infila dentro la Svizzera. Un terra dove, nel XIII secolo, transito il popolo Walser, proveniente dal vicino Goms elvetico, per colonizzare, in un’epoca dove molti passi erano percorribili e senza neve, vaste aree del territorio alpino. Per queste genti il formaggio era vita, sostentamento e moneta. E lungo un asse di comunicazione che univa l’Italia al nord Europa le forme prodotte passavano di mano in mano. Erano dote per le future spose e oggetto di scambio per stoffe, metalli e altri generi alimentari.

Alpeggio. Foto Paolo Sartori

Alpeggio. Foto Paolo Sartori

Dopo oltre 700 anni, il mito del Bettelmatt prosegue. E quel suo gusto, così intenso e caratteristico di erba e nocciola, il colore giallo paglierino e i profumi esaltati dalla stagionatura, restano inalterati. Anzi crescono di intensità ogni anno. Il segreto sta in un’erba: la mottolina. Appartenente alla famiglia delle ombrellifere, è presente in quegli alpeggi in cima alle montagne per meno di due mesi, dalla seconda metà di luglio a fine agosto. Ed è lei, quindi, a scandire tempi e zona di produzione. E’ grazie a questi sottili fili di erba che il latte, appena munto, utilizzato crudo e intero, assume quei sentori unici e particolari, abilmente trasferiti dai casari nel prodotto finale. Quando le temperature scendono e magari già ad agosto arriva qualche spruzzata di neve, si devono abbandonare gli alpeggi. Si scende a valle e ci si da appuntamento all’anno successivo.

Il risultato sono meno di 6mila forme, pochissime e per questo così ricercate. La produzione è lunga e faticosa come racconta Piero Matli, dell’azienda agricola Albrun, che produce Bettelmatt all’Alpe Forno, nel Comune di Baceno: «Gli alpeggi sono isolati e difficili da raggiungere e le nostre giornate iniziano alle 5 e finiscono a notte inoltrata. Il formaggio viene prodotto appena dopo le due mungiture giornaliere e necessità di grande cura. Le forme sono pressate e asciugate in panni di lino, cambiati e lavati ogni giorno. Poi si procede alla salatura in salamoia. Le tome vengono girate e spazzolate costantemente per avviare la stagionatura che dovrà durare almeno 60 giorni».

In un anno così particolare e imprevedibile come questo 2020 la natura ha fatto il suo corso e la produzione non ha subito rallentamenti: «E’ stata una buona annata dal punto di vista del foraggio – spiega Piero Matli – con una buona disponibilità di erba in inizio di carico, dove per altro avviene gran parte della produzione della stagione. Verso la fine di agosto il caldo si è fatto sentire e il pascolo è risultato un po’ secco ma ciò non ha pregiudicato qualità e produzione».

La lavorazione successiva è in cantina dove le forme riposeranno per arrivare a sprigionare il massimo del loro gusto. «Dopo 3 mesi il Bettelmatt è, diciamo, pronto. Dal mio punto di vista però il tempo di stagionatura migliore è almeno il doppio. Febbraio e marzo dell’anno successivo di produzione sono il periodo più corretto per degustarlo, in purezza a fine pasto o inserito nelle tante ricette con cui si possono esaltare le sue caratteristiche e la sua unicità».

I grandi chef fanno la fila per poterne avere qualche forma per deliziare i palati dei loro ospiti gourmet. E per gli intenditori resta una grande privilegio avere la possibilità di assaggiarlo, anche perché l’esigua produzione viene tutta esaurita in pochi mesi. Per tutti resta il piacere di essere parte di una storia iniziata secoli fa, tramandata nei tempi come elemento caratteristico delle cultura di queste zone alpine, fonte di guadagno e sostentamento e oggi emblema di un modo naturale e tradizionale di vivere la montagna.


Dall'Italia

Recensioni, segnalazioni e tendenze dal Buonpaese, firmate da tutti gli autori legati a Identità Golose

a cura di

Maurizio Trezzi

giornalista, classe 1966 con una laurea in Fisica e oggi un lavoro da comunicatore. Ha raccontato due Olimpiadi e 5 Mondiali di atletica leggera su Eurosport. Super appassionato di buona cucina, rhum caraibici e golf

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