«I miei prossimi progetti? Partire con mia moglie. Viaggiare, star via tanto tempo, visitando le città dei nostri sogni. Quando? Tra un decennio», ossia non appena una nuova generazione sarà pronta, ai fornelli di Verbania, «prima non posso, ho troppo da fare». Ha il senso della storia, Marco Sacco. Rispetta il rito antico che prevede il tramandarsi dei saperi. E dei sapori.
Sono appena finiti i festeggiamenti per i 40 anni del Piccolo Lago, il suo bel gioiellino bistellato che sembra tuffarsi nello specchio d’acqua col nome dal comune confinante, Mergozzo: e dalle onde increspate ancora dalle ultime scariche di tempesta sembra emergere la voglia di fare un bilancio meditato. Noi sfoderiamo il taccuino. Tutto ebbe inizio da Gastone e Bruna Sacco, anno 1974, «io avevo 9 anni ma mi ci buttai subito», a pesce (d’acqua dolce) vien da dire, vivendo così tutta l’evoluzione della cucina italiana fino a prendere le redini ai fornelli, creare un Piccolo Lago a sua immagine, «bisogna sempre fare i passi giusti, non restare indietro ma neanche anticipare i tempi, siamo chef proprietari noi…», il che aiuta in questi anni di crisi (che qui s’avverte meno) ma impone il rispetto ferreo di due regole: «Rinnovarsi senza voler correre troppo. Mantenere grande costanza». Viene in mente l’Oriali di Ligabue, “anni di fatica e botte e / vinci casomai i mondiali”, ma sarebbe in fondo un paragone improprio, a Sacco riconosciamo volentieri un’eleganza in più.

Marco Sacco al pass durante la festa di compleanno del "suo" Piccolo Lago. Lunedì ha preparato un antipasto sontuoso, Fegato d’anatra “marbrè” Rougié, insalata al burro nocciola e grano arso (lo si intravvede in basso) (foto Paolo Picciotto)
Eppure l’atteggiamento è lo stesso, lavorare duro e in silenzio, lui non è chef da palchi. E’ umile e consapevole: «Non siamo francesi, non abbiamo la loro cultura a tavola. Non siamo spagnoli, abbiamo una storia gastronomica troppo grande alle spalle. Siamo italiani e abbiamo il territorio, da quello dobbiamo partire: poi lavoriamolo con tutte le moderne tecniche, ma è il nostro dna e dobbiamo rispettarlo». Sommessamente. Pochi riflettori, gli basta il consenso dei clienti. Per questo, si è emozionato tanto, tantissimo, quando si è trattato di organizzare questa festicciola per il quarantennio, ha fatto qualche telefonata – ad
Antonino, Pino, Enrico, Andrea, Alessandro: gente così, amici - «
verresti a cucinare da me?» e ha trovato adesioni immediate: «
Vengo di sicuro, che bello». Sacco vi ha percepito una cosa importante, forse inattesa, ha quasi vergogna a ripeterla: la stima dei colleghi. Gli batte il cuore. «L’idea era quella di improvvisare poco più di una scampagnata. E’ saltato fuori un evento», due giorni culminati in altrettante serate di alta cucina, la prima coi citati protagonisti nostrani – i cui cognomi sono
Cannavacciuolo, Cuttaia, Cerea, Berton, Gilmozzi – la seconda con chef-ospiti internazionali.

Torta finale per il compleanno del bistellato piemontese (Foto Paolo Picciotto)
E’ stato bello vedere sul lago di Mergozzo il grande
Josean Alija dal
Nerua di Bilbao impiattare i suoi mitici
Tomates en salsa, intramontabile
signature dish. Buono senza se né ma il
Controfiletto di vitello, arrostito nelle foglie di ribes, polenta di farina bona mantecata al burro di midollo osseo leggermente affumicato, funghi gallinacci e ribes presentato dal ticinese
Giorgio Ravelli, giunto dal
The Ten Bells di Londra (è uno degli
Young Turks, collettivo scapigliato di giovani chef giramondo che predicano una cucina informale e contemporanea). Notevole il gioco di pesce-non pesce in piacevole zuppetta del giapponese
Yoji Tokuyoshi, gia sous chef da
Massimo Bottura e ora pronto ad esordire sulla scena meneghina con un locale tutto suo. «Mi ha fatto emozionare – è
Sacco stesso a parlare – la grandiosa semplicità di
Pino Lavarra», italiano prestato al
Ritz Carlton di Hong Kong, suoi i
Paccheri biscottati ripieni di gnocchetti di ricotta e mozzarella, semi di pomodoro, moscardini di Porto Santo Spirito e pesto in polvere. Ma tanti,
in primis chi scrive, sono rimasti impressionati dalla classe di quell’oggetto in quel momento ancora misterioso che risponde al nome di
Vladimir Mukhin, del
White Rabbit di Mosca: entusiasmante, di straordinaria eleganza, il suo
Merluzzo nero spadellato Ràfols, salsa al limone dell’Abcasia, finto porridge di asparagi e acetosa.
Insomma, festa vera, di palato e di cuore. Ora che è finita, c’è la soddisfazione di una continuità che non vien meno: «Qui al Piccolo Lago c’è una squadra di giovani straordinari, ho coinvolto i miei figli, abbiamo il bravo Paolo Griffa… Farò come mio padre, lascerò loro le redini, a chi se lo meriterà di più». Non è ancora il momento però, c’è da accompagnare la crescita della nidiata. In fondo, basta dare un veloce sguardo allo splendido specchio d’acqua lì davanti, ora che il sole torna a far capolino, per ricaricare le pile e ripartire: avanti, con altri 40…