Felix Lo Basso racconta una Milano viva e vitale. Da istrione qual è, a volte coi colleghi si lascia andare a qualche sfogo («Basta! Mi vien voglia di mollare tutto e aprire un ristorante a Singapore!»); narra però una città lombarda ricca di stimoli, metropolitana nel migliore senso del termine, «dove ogni giorno posso scegliere se mangiare un panzerotto o un ramen, cibo di strada o alta cucina, qualche specialità regionale o il piatto etnico». Mette poi in luce anche gli aspetti oscuri del capoluogo lombardo: l’ha fatto ad esempio su Economy, allegato di Panorama di maggio, nel corso di un’intervista rilasciata a Francesco Condoluci.
Nel nostro tour tra la ristorazione milanese e il suo rapporto con la città (iniziato con
Vittorio Fusari, leggi
Vittorio Fusari: la mia Milano) dovevamo dunque necessariamente far tappa all’ultimo piano della Galleria Vittorio Emanuele II, dove
Lo Basso ha
il proprio nido da poco più di un anno; vista impareggiabile su piazza del Duomo, clienti
à la page col portafogli felice, sarebbe facile proporre loro una cucina turistica senza qualità, tanto ogni piatto ha comunque un condimento segreto e irresistibile: il panorama circostante.
Lo chef invece non ne approfitta: semmai si fa forte della splendida location per sublimare il proprio stile, che sintetizza così: «Prendo la migliore materia prima possibile, la lavoro poco, punto al gusto nel piatto», con quell’inconfondibile eco mediterranea che è un po’ la sua firma, ma senza scorciatoie piacione. Lo Basso sembra facile, immediato, eppure nasconde in ogni ricetta un plus di complessità: c’è l’accento asiatico sempre forte e la suggestione che gli deriva dalla lunga esperienza tra le valli sudtirolesi...
La formula funziona perfettamente, tanto (forse) quanto questa Milano post-Expo, che lo chef racconta come fosse la Mecca italiana del
self made man all’americana, il luogo delle opportunità: «Quello che mi piace di Milano è la competitività. Qualcuno la vede come una iattura, ma è una benedizione».
Lo Basso è arrivato in città nell’aprile 2014, «mancava un anno all’Esposizione universale, io stavo in montagna, venni attratto dalla possibilità di inserirmi in una città che prometteva di crescere molto». Così è stato, dice lo chef: «Dieci anni fa quanti erano qui gli indirizzi di alta cucina? Si potevano contare sulle dita di due mani, o forse di una sola. Oggi ci sono tanti colleghi in gamba, e questo è un vantaggio: il confronto è il modo ideale per migliorarsi, sarebbe stato una chimera se fossi rimasto in Alto Adige» dove pure si trovava benissimo, «ebbi l’opportunità di sbarcare in città la prima volta quando
Fabio Brambilla lasciò il
Park Hyatt, ma preferii declinare, perché Milano allora mi sembrava grigia, cupa, senza cultura gastronomica, tutta dedita agli affari». L’Expo, anche per
Lo Basso, è stato il momento di svolta.
La città oggi affascina, gastronomicamente parlando, «perché ogni sera puoi fare qualcosa di diverso, vi abitano tutte le cucine del mondo. Milano non è grande come Parigi, Berlino o Londra, ma a livello di ristorazione è competitiva anche rispetto a quei centri ben più vasti. E trovi qualsiasi materia prima. C’è più rispetto per la professione del ristoratore», anche se i
no show sono ancora troppo diffusi, «d’altra parte la crescita del settore è recente, ci vuole tempo per sradicare certe brutte abitudini».
Invece non bisognerebbe aspettare, anzi intervenire subito, per contrastare alcune cose che non vanno: «Dicevo che oggi in città siamo tanti; forse siamo persino troppi, perché assisto a continue aperture cui fanno riscontro altrettante chiusure. Tutti si improvvisano ristoratori, anche non sapendo nulla del settore. Si mettono insieme 5 o 6 soci, versano un poco di soldi e pensano che il gioco sia fatto». Progetti che nel 99% dei casi hanno il fiato corto, ma drogano il mercato, mettono in difficoltà i colleghi “veri”. «All’estero non accade così: la ristorazione è in mano ai professionisti, non a patron che fanno gli architetti o i dentisti e poi sbirciano i conti del locale a fine mese. E’ uno sbaglio che le banche concedano fiducia a questi e non ha chi presenta un curriculum che testimonia anni di sacrificio e studio nel campo. Si creano tante realtà dietro le quali non si sa bene chi cucina, chi ci sia dietro. Tutto è opaco».

Una nebulosa che attira anche la criminalità organizzata. Il paradosso è che dietro tale vorticoso giro di soldi d’incerta origine resta un settore che – spesso a causa proprio di questo mercato drogato – non riesce a garantire stipendi sufficienti ai suoi “anelli deboli”: «Spesso tra chef ci si lamenta delle difficoltà a reperire personale. In realtà questo non mancherebbe affatto: ma lo abbiamo fatto scappare all’estero, o persino al Sud». La teoria di Lo Basso è semplice: un cameriere giovane, preparato e ambizioso che prenda mille euro al mese, a Milano non riesce a vivere, quindi o si trasferisce in altre zone della Penisola dove il costo della vita è minore, oppure va all’estero dove le paghe sono più alte. Lavorare per eliminare queste storture, operare per la legalità e innalzare la professionalità nella ristorazione, in questo caso, sono azioni congiunte, che vanno portate avanti parallelamente.
(Tornando a temi più leggeri, nella fotogallery firmata Tanio Liotta i piatti di una gran cena da Lo Basso: che professionista lo è al 100%).
LEGGI ANCHE:
Vittorio Fusari: la mia Milano, di Carlo Passera